Il Ring in una settimana. 4 Opere in scena. Intervista al direttore dell’organizzazione della produzione della Scala

3 giugno 2013

Das Rheingold, Die Walküre, Siegfried e Götterdämmerung una dopo l’altra. Quattro opere – un prologo e tre “giornate” -, quattro spettacoli, quindici ore di musica nella lunga ma concentrata unità di tempo della stessa settimana. Lunedì, martedì, giovedì, sabato.

Un progetto nello spirito di Wagner, che realizzò il sogno della prima esecuzione integrale della Tetralogia nel nuovo Festspielhaus di Bayreuth, fra il 13 e il 17 agosto del 1876. […] L’ultima volta che il Ring è stato eseguito nella stessa settimana (sei giorni esattamente) fu nel 1938, direttore Clemens Krauss, con i complessi dell’Opera di Stato di Monaco. Oggi è Daniel Barenboim a raccogliere questa eredità e a offrire al pubblico la sua cifra wagneriana” (Stéphane Lissner). Per saperne di più visitate il minisito dedicato!

In una settimana, quattro diverse opere sul palco della Scala. Quattro monumentali meccanismi di luci, scene, persone… E tutto deve funzionare nel migliore dei modi. Un enorme e impegnativo lavoro, una organizzazione precisa al secondo e studiata in ogni minimo dettaglio.

La nostra presidente Anna Crespi ha intervistato Andrea Valioni, il direttore dell’organizzazione della produzione del Teatro alla Scala.

Tu sei giovane, hai cinquantotto anni. Gli uomini vanno in crisi a questa età…
Di solito vanno in crisi a quarantotto anni. È molto più facile che accada.

Tu sei andato in crisi a quarantotto anni?
Sono andato in crisi a quarantacinque anni.

Poi ti sei sposato?
Mi sono risposato, e finalmente con la donna giusta.

Hai figli?
Io no, ma la mia attuale moglie ha due figli e devo dire che faccio davvero fatica a ricordarmi che non sono ”miei”. Sono troppo facili da amare.

Alla Scala, tu sei il Direttore dell’Organizzazione della Produzione. Mi spieghi cosa significa?
La mia prima funzione è quella di contribuire a dare un corpo a delle idee; diciamo, a trasformarle in realtà. Alla Scala esiste un Direttore Artistico, che in questo caso è anche Sovrintendente. Si fanno riunioni di programmazione dove vengono analizzate le ipotesi dei programmi che il Sovrintendente/Direttore Artistico vorrebbe realizzare in cinque successive stagioni. Chiaramente la prima base di lavoro consiste nell’impostare quei progetti che, mantenendo sempre la cifra stilistica del Teatro alla Scala, siano in sinergia con la disponibilità degli artisti che il Direttore Artistico/Sovrintendente ritiene ottimali per realizzare le nostre produzioni.

Come procedi?
Una volta deciso ciò che si vuole raggiungere, è necessario comprenderne la fattibilità, in relazione a tutte le problematiche. Inizio a calendarizzare il programma di lavoro facendo ipotesi rispetto a tutti i problemi: alle scelte artistiche, agli abbonati e alla conseguente collocazione delle recite, al rispetto delle normative sindacali esistenti e all’ottimizzazione della distribuzione del lavoro delle masse artistiche e tecniche.

Mi sembra che questo sia già un buon punto di partenza.
Sì, ma è necessario anche tener conto della convivenza degli spettacoli: la programmazione prevede almeno tre allestimenti contemporaneamente in palcoscenico e ognuno di loro deve proprio fisicamente convivere (in palcoscenico) con gli altri due. Sono alternati su una logica che prevede due prove al giorno, mattina e pomeriggio fino alle ore 16.00. Poi, normalmente dalle 16.00 alle 19.00 c’è lo smontaggio dello spettacolo presente in palcoscenico e alle 20.00 si apre il sipario per la recita dello spettacolo che è già andato in scena precedentemente. In altre parole: lo spettacolo A è in recita, lo spettacolo B e C sono in prova o alternano le loro prove in palcoscenico con le recite dello spettacolo A, mentre lo spettacolo D è in prova in sala prove. Chiamo questo meccanismo “a treccia”.

In grandi linee, così è pronta la programmazione?
Con Lissner abbiamo costruito una programmazione su cinque anni. Si basa su un meccanismo di lavoro che funziona sette giorni su sette, ventidue ore al giorno: terminato lo spettacolo, di notte viene smontato lo spettacolo A e rimontati lo spettacolo B o C che proseguono le prove durante il giorno.
Il mio lavoro consiste nel concepire questa alternanza continua nel rispetto delle esigenze artistiche ottimizzando i tempi di programmazione senza dispersioni inutili. Noi non siamo un teatro di prosa, in cui si fanno quaranta giorni di prova e poi trenta recite tutti i giorni, salvo il lunedì. La Scala non può lavorare così. Non si può allestire la Traviata e metterla in scena per trenta recite consecutive: gli artisti impegnati hanno bisogno di avere due/tre giorni di riposo tra una recita e l’altra per garantire il più alto livello qualitativo al pubblico, e la stessa compagnia di canto deve essere ripresentata almeno sei volte: alla prima recita e per cinque recite successive, destinate ai turni di abbonamento. Ne deriva automaticamente la necessità di alternare progetti diversi tra le recite per garantire la continuità di programmazione.

E le prove?
Bisogna sviluppare un piano di prove in un meccanismo che alterni progetti diversi garantendo comunque una… “continuità creativa”.
Ipotizzo in primo luogo, a distanza di cinque anni, uno schema generico che si basa sulla struttura della partitura del titolo scelto; poi assesto il piano-prove man mano che acquisisco i dati indispensabili.
Ti faccio un esempio. Io posso sapere che tra cinque anni faremo Tosca, diciamo in gennaio e febbraio. Faccio un piano-prove ipotetico; poi, a tempo debito, si decide che il regista sarà ad esempio X e il direttore Y. A questo punto, non è solo un’ipotesi, ma bisogna iniziare il percorso che, attraverso la loro interpretazione del progetto, ci porterà a condividere le loro esigenze artistiche e a coniugare la loro sensibilità con la programmazione e le regole organizzative e sindacali che la regolano.

Tante precise programmazioni… Sembra un lavoro senza fine…
C’è anche un secondo piano: la gestione della produzione. Quello che è stato ipotizzato va realizzato; si pianifica cosa succede giorno per giorno e si verifica che quanto progettato si concretizzi. E qualora non avvenisse, bisogna essere in grado di avere soluzioni alternative.

Hai un ufficio molto organizzato. Da dove partono gli ordini programmati?
Il mio ufficio è costituito da tre fasce: la programmazione futura, la produzione quotidiana, l’ospitalità degli artisti e l’organizzazione del loro lavoro in teatro. Da me dipendono anche i Direttori di Scena, oltre agli addetti all’Orchestra e alle Sale Prove. L’altra cosa che mi riguarda direttamente è la gestione del palcoscenico in relazione all’organizzazione del personale. Quando programmo un antepiano devo essere sicuro preventivamente che la sartoria abbia pronti i costumi, che quelli del trucco abbiano pronte le parrucche, che le luci siano a posto; devo controllare gli orari dei tecnici di palcoscenico… In pratica devo fare in modo che le risorse tecniche e artistiche siano tutte coordinate.

E le tournée?
Mi occupo anche della fattibilità di tutte le tournée, per quanto concerne la parte organizzativa sia per la loro effettiva realizzazione. La direzione dei contatti diretti, invece, è a carico del Direttore Generale.

Tu fai un lavoro di organizzazione incredibile, a un livello, direi, matematico.
Forse ti farà sorridere, ma ti confesso che mi è servito tantissimo aver giocato molti anni a bridge. È un gioco in cui bisogna prevedere, nell’istante in cui giochi una carta, cosa succederà da quel momento in poi.

Per tre volte, con due mogli e una compagna, non l’hai previsto però!
In amore ho sempre giocato a carte scoperte.

Quanti anni avevi quando sei arrivato alla Scala?
Era il 1987, con Badini. Facevo il Direttore di Scena. Avevo trentadue anni.

Prima cosa facevi?
Sono sempre stato appassionato di teatro. Mi sono diplomato all’ISEF, ma ho fatto anche tre anni a veterinaria e contemporaneamente seguivo i corsi della Scuola del Piccolo Teatro. Ho fatto l’attore, il regista, il doppiatore, sono uno dei soci fondatori del CRT, Teatro dell’Arte di Milano. Ho lavorato per otto anni con la prosa. Sono andato al Comunale di Bologna e poi a Pesaro, Ravenna, Cagliari. Poi mi hanno chiamato alla Scala dopo un percorso in teatro che durava già da dodici anni.
Nel 1990, a trentacinque anni, sono stato nominato Direttore di Produzione. Ero il più giovane tra i Direttori di Produzione in Europa.

Quando hai capito la tua strada?
Facevo la quinta ginnasio. Avevo una professoressa di italiano, latino e greco che non era interessata a insegnarci quelle materie, ma era appassionata di teatro e in particolare di prosa. In classe c’erano compagni che erano in seminario: il seminario ci ha concesso l’uso del loro teatro e per tutto il tempo del liceo lo abbiamo di fatto gestito. Facevamo tutti fatica a studiare, ma ogni anno mettevamo in scena quattro o cinque commedie classiche e tragedie greche.
È nata così la mia storia… Avevo quattordici anni e non ho voluto più smettere.

Cosa pensi degli Amici della Scala?
In sincerità, da sempre siete le persone più dolci e gentili con cui abbiamo a che fare. Avete sempre un modo di porgervi, in cui non vi sentite mai padroni di casa. Siete sempre disponibili a trovare soluzioni capendo le nostre problematiche. Non è mai stato difficile lavorare con voi.

Quando avete costruito il secondo palcoscenico?
È avvenuto quando abbiamo riaperto la Scala nel 2004.

Prima lavoravate con un solo palcoscenico?
Sì, e poteva ospitare solo due allestimenti. Si facevano miracoli in strutture inadeguate.
Anche il numero delle recite e aperture di sipario erano inferiori. Con Fontana, al rientro in sede dal periodo in Arcimboldi, era già iniziata questa evoluzione e con Lissner siamo arrivati a fare duecentosettanta aperture di sipario all’anno. Con Badini non credo si arrivasse a più di centosettanta. Il numero di recite, e soprattutto di prove, si è moltiplicato.

Qual è stata la visione di Lissner?
Lissner ha richiesto che tutti gli spettacoli, produzioni o riprese che fossero, avessero pari dignità: tutti dovevano arrivare alla loro prima recita nella migliore delle situazioni.
Ha dato al Teatro certamente un passo diverso: vi è un maggior numero di prove e con maggiore qualità. Non solo sono aumentate le recite, ma è aumentata anche la mole di lavoro quotidiano.

Ho assistito a una prova alla Scala, senza pubblico. Sul palcoscenico c’era un ordine così preciso… con i lavoratori vestiti di nero. Nel golfo mistico ogni sedia accoglieva uno spartito rosso…
La Scala, e l’ho capito non appena sono entrato in questo teatro, tiene molto a questo aspetto – alla massima concentrazione –, e Lissner, sposandone naturalmente gli intenti, ne ha fatto un punto irrinunciabile del suo mandato. Aver aumentato la mole di lavoro quotidiano ha costretto ad alzare il livello di attenzione di tutto il teatro, e questo è molto importante per la qualità dello spettacolo. Per ciascuno spettacolo si dà tutto quello che si può.

Com’è il pubblico oggi?
Sicuramente è cambiato. Oggi abbiamo a che fare con un pubblico più d’“importazione” che non prettamente milanese. Questo fa sì che la continuità tra la Scala e il pubblico sia messa in discussione. Per mantenerla viva abbiamo creato ad esempio dei cicli con spettacoli che storicamente avevano trovato poco spazio nel nostro teatro, alternandoli a titoli che potremmo definire più classici.

Il grande cambiamento c’è stato anche con la privatizzazione?
Per noi la privatizzazione non ha inciso di certo sulle scelte di programmazione. E il contributo dei privati è assolutamente fondamentale oggi per la nostra sopravvivenza malgrado la mancanza di una possibile defiscalizzazione dei loro contributi.

Ed è preoccupante?
Non credo che sia preoccupante l’intervento dei privati; è preoccupante la disincentivazione da parte dello Stato, del Comune, della Provincia e della Regione. Non è solo un problema di soldi, ma di riconoscere la Scala come elemento fondamentale per la cultura italiana, anche all’estero. La Scala è il “Teatro Italiano” non certo “una sala” di Milano. Io non vorrei che si andasse a impoverire la sua immagine nel mondo.

Qual è secondo te la sua immagine nel mondo oggi?
Credo che il valore del nostro Teatro vada al di là dei privati. Il brand, l’immagine della Scala all’estero, è enorme, al punto tale che, quando abbiamo traslocato agli Arcimboldi, per tutto quel periodo i negozianti e i ristoranti del centro hanno perso il 30% dei clienti.

Qual è allora il ruolo dello Stato?
Il Teatro alla Scala ha un valore pubblico: lo Stato deve sostenere e investire nella cultura non solo perché è debitamente previsto dalla Costituzione come principio fondamentale di uno stato civile, ma anche perché non è, come si pensa, una dispersione di risorse, ma innesca invece un meccanismo di ritorno economico incredibile. La mancanza di investimenti nel settore genera danni irreversibili. L’Italia dieci anni fa era il Paese più visitato al mondo; ora siamo scesi al quarto posto.

Lissner dice che è stato più faticoso salvare il Teatro da alcune persone interne e esterne, che programmare le stagioni.
Le contraddizioni non mancano e non mancheranno mai, ma devo dire che, una volta capita e condivisa l’idea del Sovrintendente, in fondo non è stato difficile seguire il passo di Lissner. Il potenziale del Teatro c’era.

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