Rembrandt e Morandi: agli Uffizi, la storia di una “lontanante vicinanza”

11 gennaio 2013

Separati da tre secoli di distanza, Rembrandt e Giorgio Morandi si ritrovano affiancati agli Uffizi, per la mostra invernale del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Quaranta opere, quaranta incisioni divise equamente tra i due autori, che tornano a testimoniare l’influenza dell’opera dell’artista olandese sulla visione del bolognese Morandi.

Il miracolo della vicinanza, o meglio della “lontanante vicinanza” descritta da Marzia Faietti (curatrice dell’esposizione insieme a Giorgio Marini), si compie a partire da un oggetto minimo: quel “Conus marmoreus” ritratto con ammirazione e fermezza nel 1650. La “Conchiglia” ripresa da Morandi è datata invece 1921: nelle sue ombre, secondo lo scrittore Giuseppe Raimondi che quella stessa stampa ricevette in regalo, si può ancora scorgere “il nero opaco, cotonoso dei neri di Rembrandt. Un nero livido, pestato, ottenuto per la combustione, la distruzione della materia. Il nero di una notte tetra, passata a guardare fissamente nel buio”.

Eppure è soltanto intorno alle geometrie marine, misteriose e immutabili, che i due artisti davvero intrecciano le loro mani. Per il resto, quella che va in scena in questa mostra (“Rembrandt visto da Morandi”, fino al 18 marzo 2013) è una sorta di osservazione, o inseguimento, con un passo in graduale avvicinamento. Morandi, autodidatta dell’incisione, ha nei primi anni Venti un “momento rembrandtiano”: ma la ricchezza tecnica e visiva del maestro andrà per lui a tradursi in un tratto rarefatto, peraltro messo a segno, dal 1923 in poi, quasi esclusivamente con la tecnica dell’acquaforte.

La critica ha così parlato di un incontro tra i due che avvenne sul piano dell’espressione, un piano morale: anche attraverso lo studio di Rembrandt, Morandi arrivò ad ambire a un uso alto delle incisioni, le quali avrebbero assunto, nel corso della sua carriera, un ruolo di fondamentale importanza.

 

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