Macerata Opera Festival: Muri e Divisioni. Intervista al Direttore Artistico Francesco Micheli

1 luglio 2013

“Abbattimento di ogni muro e superamento delle divisioni: parte da qui la stagione lirica dello Sferisterio con la direzione artistica di Francesco Micheli. Quattro le nuove produzioni: due titoli di Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita, Nabucco e Il Trovatore, e una intensa attività di ricerca con un dittico su Benjamin Britten, composto da Sogni di una notte di mezza estate e Il piccolo spazzacamino“.

Così nella Homepage del sito di Macerata Opera Festival è introdotta la nuova “Stagione” che vedrà alternarsi sul palcoscenico del magnifico Sferisterio le opere Nabucco e Il trovatore di Giuseppe Verdi, oltre a Il piccolo spazzacamino di Benjamin Britten e una serata speciale con Sogni di una notte di mezza estate – Britten, Mendelssohn e Shakespeare, uno spettacolo che fonde le arti e che vede la regia dello stesso Direttore Artistico Francesco Micheli.

Ma il Macerata Opera Festival è anche altro. Nel programma “ufficiale” è previsto anche il balletto Romeo and Juliet, con il corpo di ballo di Aterballetto (tra l’altro recentemente protagonista al Piccolo Teatro con 4 spettacoli entusiasmanti), un omaggio a Beniamino Gigli, e un “fuori programma”: il concerto di Patti Smith, icona rock che ama la lirica (“È per me molto significativo avere l’onore di suonare allo Sferisterio, specialmente nel mezzo della stagione lirica. Anche se siamo una rock and roll band, porterò con me il mio amore per l’opera che è iniziato quand’ero bambina grazie ai lavori di Verdi e Puccini“).

Ma con la gestione del giovane Direttore Artistico Francesco Micheli, la stagione estiva dello Sferisterio non è solo sul palco dell’affascinante (e unica) struttura teatrale all’aperto, gioiello di Macerata, ma è anche Festival Off. Off che vuole significare fuori dal tradizionale palcoscenico, e coinvolgere e avvicinare un pubblico più ampio, più variegato, coinvolgendo anche altri paesi e altri teatri, entrambi reali scrigni e perle spesso realmente “incastonate” nel paesaggio marchigiano. Serate dedicate all’opera, aperitivi culturali, mostre, e molto altro, oltre a quello che può essere definito l'”Evento” dell’estate maceratese: la Notte dell’Opera. Giovedì 1 agosto Macerata si trasformerà in un grande “set” che ospiterà il terzo atto del Trovatore: “Il centro storico è la Rocca di Castellor: gli abitanti sono fedeli del Conte di Urgel, il cui esercito è guidato da Manrico. Il colore di questa fazione è il nero.Corso Cairoli e Corso Cavour sono le due armate dell’esercito del Conte di Luna: il colore di questa fazione è il bianco. Gli zingari, singoli o in gruppo, vagano in libertà e si possono trovare perciò in qualunque quartiere. Il loro colore è il rosso. L’ambientazione è medievale, ma di un Medioevo fantastico, libero e creativo“.

Dopo l’enorme successo della prima edizione, voluta da Micheli, si ripeterà quest’anno in omaggio a Verdi. L’impegno del Direttore Artistico, al suo secondo anno di gestione della Stagione maceratese, è stato già premiato con una riconferma fino al 2015. Ma, cosa più importante, è stato premiato dal successo delle iniziative che ha voluto “creare” e di come ha voluto (e saputo) “trasformare” un Festival che era già una istituzione in un festival che oltre a riaffermare la sua posizione di prestigio e di qualità possa essere più vicino alla città, alla gente, e cosa importante, ai giovani. L’impegno del giovane Direttore Artistico da subito si è indirizzato proprio in quella direzione. Coinvolgere la città intera in un festival che non sia per pochi e per poche serate, ma un “neverending event” che trasformi e influenzi positivamente la città e il territorio durante la stagione estiva. Il Macerata Opera Festival come un “terroir.

Grande impegno anche nel portare in prima persona la conoscenza del patrimonio artistico e culturale maceratese e marchigiano nelle scuole, nel territorio, provando a avvicinare, “appassionare” le persone a ciò che, come spesso purtroppo accade, si ha sotto gli occhi ma non si è mai “guardato”…

La nostra Presidente Anna Crespi ha intervistato proprio il maestro Micheli, con una interessante conversazione che ci fa scoprire molto sulla “persona” del Direttore Artistico.

Quali sono le origini della Sua famiglia?

La mia famiglia proviene da Bergamo, la terra di Arlecchino: abbiamo sempre dovuto rimboccarci le maniche. Siamo come una noce di cocco: abbiamo una scorza dura, ma una pasta saporita e morbida.

Fin dal Cinquecento la famiglia di mio padre è una famiglia di mugnai; mio nonno tuttavia decise di fare l’operaio. Il padre di mia mamma, invece, era un farmacista: arrivò a San Pellegrino e lì inventò la magnesia, per poi vendere il brevetto allo stabilimento delle acque.

Lei proviene da una famiglia benestante?

Mio padre era di umili origini; mia madre, al contrario, proveniva dall’alta borghesia di Bergamo. Era bellissimo il loro rapporto, accessissimo.

Mio padre era un uomo dolce, buono; mia madre era cresciuta in un collegio di suore tedesche, ciononostante indomita. Ma hanno saputo trovare un buon compromesso: definirei il loro modo di fare “pittoresco”; c’era molta teatralità nel loro rapporto. Hanno imparato ad amarsi ascoltandosi. Mi hanno insegnato l’ironia.

Mia mamma c’è ancora, mio padre purtroppo no.

Ha fratelli?

Mi sono sempre sentito quasi figlio unico: i miei fratelli sono molto più grandi di me e io ho sempre ricevuto molte attenzioni, ma soprattutto tanta libertà. I genitori di oggi sono estremamente presenti, forse a volte soffocanti. Io invece ero lasciato libero e me la sono sempre cavata da solo.

Ho trascorso buona parte della mia infanzia da solo. Penso talvolta che la vita sia come una navigazione, in buona parte solitaria. Forse uno dei motivi per cui amo il mio lavoro è perché mi permette di stare in mezzo alla gente , e nello stesso tempo, nei momenti cruciali, mi impone di prendere le decisioni da solo.

Lei è una persona solitaria?

Ho sempre trascorso molto tempo da solo. Ora mi rendo conto che la solitudine mi pesa.

Ha sempre voluto fare il musicista?

Io sono cresciuto in Val Brembana. Era una realtà strana: non c’erano molte attività da svolgere, non c’erano un cinema, e nemmeno un teatro.

Ho sempre voluto fare musica e i miei genitori iniziarono a portarmi al Conservatorio. Impiegavamo quaranta minuti ad andare e altrettanti a tornare. Era molto faticoso per loro. Quando avevo undici o dodici anni ho visto il film di Milos Forman su Amadeus e fui più colpito dallo sguardo lucido e infelice di Salieri, piuttosto che dal genio inarrivabile del giovane compositore.

Terminato il liceo scelsi la mia strada: il teatro e l’opera. Ho frequentato la Scuola Paolo Grassi di Milano.

Come ha fatto a intuire che era la Sua strada?

In casa ascoltavamo di tutto, da Mozart ai Pink Floyd, ma poca opera. Io amavo molto la musica classica.

Quando avevo diciotto anni, durante una vacanza all’estero, ricordo di aver letto su una rivista che in TV avrebbero trasmesso Così fan tutte, diretto da Accardo, dal Teatro Mercante di Napoli. Ho subito telefonato a mia sorella, supplicandola di registrarmi la trasmissione. Lei, pur meravigliata da questa mia richiesta, mi accontentò. Quando sono tornato a casa ho guardato e riguardato per un’intera settimana la registrazione di Così fan tutte. L’opera da quel momento è diventata la mia passione predominante.

Il teatro, l’arte e la cultura erano per lei come un frutto proibito da conquistare?

Penso di sì. Le racconto un aneddoto. Quando ero piccolo, ero convito di essere nato nel centro dell’universo. Avevo circa otto anni e ho visto il film Totò, Peppino e… la malafemmina, dove, in una scena, la Val Brembana veniva derisa. Mi sono reso conto all’improvviso di trovarmi in estrema periferia, fuori dal mondo. Nacque in me il desiderio di essere al centro del mondo. Iniziai a interessarmi di politica, di filosofia, di letteratura; mi sono laureato in Lettere, determinato a intraprendere la carriera accademica.

Per un periodo della mia vita ebbi anche la vocazione religiosa: frequentai i gesuiti ed ero convinto di voler entrare nella loro comunità. Poi ho conosciuto il teatro, e ho capito che avrei potuto cambiare il mondo grazie all’opera.

Ha anche pensato di diventare prete?

Sì, per un certo periodo della mia vita ho anche pensato di diventare sacerdote. Sarebbe stata la strada più sicura. Un tempo ero molto più cattolico; adesso mi sono allontanato dalla fede.

Da bambino rimasi molto affascinato da un prete missionario, e mi sarebbe piaciuto diventare un padre gesuita. Volevo migliorare la società. Avevo nove anni. Il missionario mi diede un consiglio molto intelligente: mi disse che per capire la mia vera vocazione avrei dovuto continuare a studiare, laurearmi e sviluppare i miei talenti.

Quando mi sono laureato avevo tre strade di fonte a me: la carriera universitaria, il teatro e il sacerdozio. Iniziai a frequentare Villapizzone, dove c’era il centro vocazionale dei gesuiti e nello stesso tempo misi in scena la mia prima opera teatrale. Era il 1997 e fui chiamato dal Teatro delle Erbe, su consiglio di un mio insegnante, per sostituire il regista che si era ammalato: si inaugurava la stagione sinfonica con una piccora opera, La Cantarina di Piccinni.

Ho scelto così la mia strada.

Cos’è per Lei la religione?

È un atto di fede totale. Ma sono fermamente convinto che anche il teatro sia una religione, forse la più alta. Richiede una dedizione completa.

Cosa si aspetta dalla Sua carriera e dalla Sua vita? È un percorso che continua?

Se mi guardo alle spalle, in questi primi quindici-vent’anni di attività, mi rendo conto di aver commesso errori, di essermi creato aspettative tradite, ma anche momenti felici. Rifarei e rivivrei tutto, anche le parti più oscure e amare.

La meta consiste nel poter fare, dire, cambiare e migliorare il più possibile le cose attorno a noi.

Io fin da piccolo provavo e trasmettevo la mia gioia e il mio amore per il teatro: da bambino mi sono fatto regalare il teatro delle marionette. Mi esibivo davanti alla mia famiglia e tutti si divertivano. Capivo che donavo benessere ed era una gioia incommensurabile.

Tuttora mi riempie di gioia sapere che, ogni volta che si alza il sipario, migliaia di persone possono godere del mio lavoro

Ha fatto anche cinema?

No, sono solo un appassionato, ma mi piacerebbe fare film anche se so che non è il mio mestiere. Sono tre i registi che amo di più: Bergman, Visconti e Pasolini. Fellini è un genio assoluto, ma questi tre sono più vicini alla mia storia e alla mia personalità. Visconti, che è stato un grandissimo cineasta, ha sempre avuto un profondo amore per l’opera. Basti pensare all’inizio di Senso: la telecamera zooma sul palcoscenico del Teatro La Fenice di Venezia, dove sta andando in scena Il trovatore, e poi si gira e mostra la sala, il pubblico. In quella scena c’è tutto quello che vorrei essere, che vorrei dire, che vorrei fare.

Le piacerebbe essere uno scrittore?

La regia è una scrittura. Bergman è il primo regista di cui ho memoria. Mio zio organizzava dei cineforum e io all’età di quattro o cinque anni vidi Il flauto magico di Bergman. La prima opera che mi ha dato successo è stata proprio la scrittura per una riduzione per i bambini de Il flauto magico di questo grande regista.

I bambini riescono a capire Il flauto magico?

Sì. Basti pensare che la prima letteratura per l’infanzia si basa sulle storie cosmogoniche, quelle in cui si spiega com’è nato l’universo. Nel Flauto Magico c’è una visione dell’universo di cui i bambini hanno una percezione, una comprensione empatica; con un colpo d’occhio riescono a capire tutto. È sbagliato trattare i bambini come creature sciocche. In verità hanno una percezione della realtà e dell’arte più sensoriale rispetto agli adulti.

Io ho sempre amato relazionarmi con i bambini; ho anche fatto il capo scout. Nella mia attività di autore e regista di spettacoli è fondamentale per me il confronto con le giovani generazioni e con gli adolescenti che non conoscono l’opera e il codice operistico: aiutano a comprendere se ciò che si dice è chiaro, profondo.

Lei è nato e cresciuto in una piccola realtà e ha sempre avuto il desiderio di proiettarsi verso l’esterno… È così?

Si, le ragioni sono tantissime. Quando leggiamo, ad esempio, i resoconti di quando Verdi aveva messo in scena la Traviata, si percepisce come la città si preparasse al debutto di un’opera con la stessa solennità, dedizione, con cui una comunità religiosa si prepara alla messa pasquale.

Quando si partecipa a una Prima della Scala c’è grande aspettativa, ci si pensa e ci si prepara nei giorni che la precedono. Le attività degli Amici della Scala sono fondamentali perché aiutano a conoscere l’opera e creano l’aspettativa.

Vorrei che Macerata comprendesse che l’Opera Festival non si svolge solo nel teatro, ma che tutta la città è coinvolta, tanto da configurarsi come un grande palcoscenico,

La Scala è importante per Lei?

Dopo il liceo mi sono iscritto alla facoltà di Lettere moderne a Milano perché volevo vivere nella città del teatro più famoso del mondo. Ho iniziato a frequentare la Scala dall’età di diciannove anni. Varcando la soglia del Piermarini si respira l’atmosfera internazionale di Milano.

La Scala custodisce l’anima della città, conserva in sé la natura profonda del luogo.

Anche il festival di Macerata deve preservare il sapore marchigiano per poter potenziare la sua internazionalità: quanto più le radici del festival sono profonde nella terra maceratese, tanto più può crescere un grande albero internazionale.

Quando è arrivato a Macerata, l’ambiente, la bellezza del teatro e il mare hanno influenzato il Suo lavoro?

Il teatro di Macerata è speciale anche grazie al suo contesto.

Perché?

Innanzi tutto perché non è nato come un teatro, ma come stadio. Il teatro d’opera che si mette in scena deve essere agile, vitale, energico come una manifestazione sportiva. L’energia dello Sferisterio deve sprigionarsi e coinvolgere l’intero territorio.

Macerata è come una preziosissima pietra incastonata in un anello, altrettanto prezioso: la provincia di Macerata conta della più alta concentrazione di teatri storici al mondo. È importante che anche il festival, dallo Sferisterio, deflagri in tutto il territorio.

Come si è costituito lo Sferisterio?

Lo Sferisterio è nato grazie all’associazione di cento famiglie che hanno raccolto i fondi e costruito il teatro: è un’iniziativa privata nata per il bene collettivo. Il teatro appartiene ai cittadini e devono essere coinvolti.

Esiste l’associazione degli “Amici del Sferisterio”?

Sto cercando di creare gli Amici del Sferisterio: è davvero importante. Voi Amici della Scala siete la linfa vitale del teatro.

Cosa pensa dei giovani d’oggi?

La mia generazione è cresciuta con i libri. Al di là della lettura, avevamo al massimo il cinema e la TV. I ragazzi di oggi sono cibernetici, non sanno neppure più sfogliare un libro. Il computer è stato un’invenzione rivoluzionaria, come la stampa di Gutenberg, e le giovani generazioni hanno una capacità di logica fortissima, ma sono orfani di maestri che sappiano insegnare loro le cose in cui credere.

I valori culturali, sociali, politici della mia generazione sono molto diversi rispetto ai loro. Per esempio io ritengo fondamentale insegnare ai giovani l’opera lirica, è un’invenzione prodigiosa: fa parlare tutto il mondo in italiano. Per questo motivo organizzo conferenze rivolte ai giovani. All’inizio è sempre difficile farmi ascoltare, ma alla fine c’è un silenzio che precede sempre un applauso scrosciante.

Riesce a coinvolgere anche i giovani delle grandi città come Milano e Roma?

Le conferenze sono rivolte agli studenti delle scuole superiori: a Milano con la Filarmonica e a Roma con Santa Cecilia. Sono iniziative che funzionano perché l’opera è la più grande miniera di cultura italiana e coinvolge tutte le forme d’arte.

Penso che l’opera sia come il computer: ha un linguaggio complesso e non ambisce a imitare la realtà. Per questo motivo i giovani riescono a capire con più facilità le regole e il linguaggio operistico. Le nuove generazioni sono attive e partecipi.

Cosa pensa del teatro di prosa?

Io mi sono formato all’Accademia Paolo Grassi e per me è stata un’esperienza preziosissima. Devo dire, tuttavia, che il teatro di prosa italiano non mi entusiasma. Forse dipende dal fatto che i palcoscenici di prosa sono circoscritti alla lingua nazionale; li trovo un po’ angusti. Il palcoscenico lirico invece è internazionale. Ambisco a un tempo in cui le differenze tra teatro lirico e teatro di prosa diminuiscano sempre di più. Pensi che fino a Checov il teatro di prosa era anche lirico: si ballava, si cantava, c’era l’orchestra…

Come trova il teatro lirico italiano?

Trovo che lo scenario lirico italiano soffra di mancanza di teatralità. La cosiddetta scuola di regia italiana si è un po’ sovrapposta alla scenografia; sovente gli scenografi in Italia sono diventati anche registi. Ma, a mio avviso – salvo il caso di grandi geni che sanno dedicarsi a entrambe le professioni –, regia e scenografia devono restare due ambiti distinti.

Spesso la regia operistica italiana dimentica che sta raccontando una storia; dimentica che un’opera non sta solo nel far muovere i cantanti sulla scena. La bellezza per me è un valore: una peculiarità della regia lirica italiana è proprio il forte legame di fedeltà al bello che non deve essere fine a se stesso, ma deve servire a raccontare una storia.

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