Intervista a Paolo Besana

1 luglio 2013

La nostra Presidente Anna Crespi ha intervistato Paolo Besana,  responsabile dell’Ufficio Stampa nazionale e internazionale del Macerata Opera Festival (di cui parliamo qui), oltre ad essere il responsabile della comunicazione della Filarmonica della Scala.
La Filarmonica ha inoltre da poco presentato la nuova stagione 2013/2014, consultabile nel loro sito.

La tua famiglia è milanese? Sei figlio unico?
Siamo milanesi. Ho una sorella.

La tua famiglia ti ha trasmesso la passione per la musica?
Vengo da una famiglia non propriamente musicale. I miei genitori erano abbonati al Quartetto, ma non alla Scala. La famiglia di mia madre era più legata alla musica perchè c’era stato un rapporto di amicizia con Benedetti Michelangeli. Il mio prozio lo ospitava spesso, suonavano il pianoforte a quattro mani.

Quanti anni avevi?
Parlo della mia infanzia, fino ai dieci anni. A quell’epoca risalgono i primi tentativi di mia madre di farmi studiare il pianoforte.

Solo tentativi?
La prima persona a cui ci si era rivolti era un’amica di famiglia, che tra l’altro era amica anche di Benedetti e talvolta lo ospitava quando tornava a Brescia. Presi qualche lezione con lei. Poi continuai con un’altra insegnante, allieva di Vincenzo Vitale, che ci era stata consigliata dai Campanella. Sono andato avanti con lei per un po’; avevo sette/otto anni. Quando lasciò Milano io interruppi lo studio.

Sei nato in una famiglia dove erano vivaci i contatti con musicisti. Tu li avvertivi senza rendertene conto, come tutti i bambini.
Andare al Quartetto era per me emozionante. Ho sentito suonare Rubinstein, uno dei primi ricordi in assoluto della mia vita, ma anche Richter, Horszowski. Ho avuto la fortuna di ascoltare una generazione di artisti incredibili.

Queste influenze musicali derivano dall’ambiente familiare… Capivi la musica perché ti piaceva ascoltarla…
Il Quartetto è una parte importante della mia infanzia: tantissimi Razumovsky! Nella famiglia dei miei genitori nessuno aveva competenza musicale, ma c’era il piacere e c’era un gusto severo. Ricordo che Rudolf Serkin andava bene, ma Krystian Zimerman era già concepito come qualcosa di sentimentale e abbastanza sospetto. Figuriamoci l’opera!

Ai tuoi genitori non piaceva l’opera?
No, assolutamente.

Quali sono stati i tuoi studi?
Dopo il liceo ho fatto gli esami per entrare in Bocconi poi però ho scelto di non frequentare quella facoltà e mi sono iscritto a Filosofia in Statale.

Perché hai scelto filosofia?
Difficile ricostruire adesso cosa mi muovesse allora.

Ti intrigavano le materie che potevi frequentare?
Cercavo il pensiero, stimoli intellettuali. C’erano delle grandi passioni, come quella per Walter Benjamin per esempio. Il paesaggio culturale di quegli anni era decisamente differente rispetto a quello di adesso. A chi interesserebbe oggi tutta quell’ermeneutica?

Posso chiederti quanti anni hai?
Sono nato nel 1968. Ho quarantacinque anni.

Questi ultimi anni sono caratterizzati da una velocità quasi violenta. Sei un uomo di pubbliche relazioni: hai imparato le lingue?
Parlo inglese e francese; capisco il tedesco ma non lo so parlare. Nell’ambiente musicale siamo abituati a sentirci chiedere: “Non parli russo?”.

Nell’ambiente musicale bisogna essere poliglotti?
È un ambiente internazionale, parlare tre lingue è il minimo. I musicisti spesso hanno una facilità particolare per le lingue, inoltre devono viaggiare per lavoro. In più hanno la lingua della musica.

Poi sei diventato giornalista?
Sì, facendo Ufficio stampa. Poi ho scritto qua e là.

Articoli?
Ho scritto articoli, fatto interviste, ma solo come attività collaterale. Da settembre scriverò con più regolarità su L’Uomo Vogue.

Hai un carattere più costruttivo che rivoluzionario. Com’è stata la tua adolescenza?
È stata abbastanza forte e si è risolta in una serie di insuccessi negli studi. Non è stata del tutto lineare.

Non eri rivoluzionario?
Se ti riferisci all’attività politica diretta, non posso dire di averne fatta moltissima. Di manifestazioni ne ho fatta qualcuna per qualche causa giusta e anche per qualche causa sbagliata. Sono stato un po’ rivoluzionario, ma senza esperienze “epiche” da raccontare.

Hai fatto fatica a trovare la tua strada o è stato naturale?
A posteriori tutto sembra predestinato. Ma in realtà non lo è stato.

I giovani, quasi tutti, hanno un percorso che si assomiglia. Che differenza c’è tra il tuo percorso e quello di un giovane d’oggi?
Probabilmente adesso c’è una generazione più concreta e legata alle condizioni reali della vita. In passato c’è stata una fase in cui più cose erano possibili ed essere moderatamente utopisti era un atteggiamento razionale. C’era la possibilità di essere protagonisti, se non “della” storia, per lo meno “nella storia”. Adesso viviamo una fase di grandi cambiamenti che per la maggior parte ci investono senza che ci sia la possibilità di influenza diretta. Vedo meno fiducia in diversi futuri possibili.

Qual è stato un fatto importante nel tuo percorso di studi?
Un banale incidente burocratico. Avevo preso accordi con il mio professore di filosofia del linguaggio, che era la materia cui allora pensavo di dedicare la mia vita, per andare a fare un anno di Erasmus ad Amsterdam. Per errore della burocrazia olandese, la mia richiesta non è stata registrata e accolta. Sono rimasto in Italia e mi sono occupato di altre cose; per esempio, mi sono avvicinato al mondo della musica.

Che cos’è la filosofia del linguaggio?
È una branca della filosofia che si occupa delle strutture logiche del linguaggio.

È una materia che ti è servita anche per la formazione della tua personalità?
Credo di sì, anche se la mia vita ha preso una direzione diversa. Ti racconto un fatto che mi impressiona: a volte guardo la mia biblioteca e penso che dovrei buttare via la metà dei miei libri. Molti non li riprenderò mai tra le mani. Talvolta, tuttavia, mi capita di riaprirne alcuni; e sai cosa accade? Che molti dei libri sui quali ho studiato quando avevo vent’anni adesso non li capisco più!

Non trovi più te stesso in quei libri, ma ti trovi in altri…
Si tratta semplicemente di aver cambiato paesaggio culturale, stimoli. La logica, la filosofia del linguaggio, per certi aspetti sono come lo sport: la mente deve essere allenata per lavorare su certe cose. Sono campi in cui c’è un tipo di pensiero molto performativo; a una certa età non hai più la possibilità di ripetere le performance mentali dei vent’anni, benché le mie non fossero poi straordinarie.

Tu segui un’orchestra anche nelle tournée, la vivi…
Me ne occupo da dieci anni.

Trovi che gli orchestrali siano cambiati negli anni? È cambiata la mentalità dei giovani orchestrali?
A livello personale mi sembra che le nuove generazioni abbiano cultura e aspettative molto diverse da quelle dei loro colleghi più anziani. Altro è il discorso sulle dinamiche di gruppo, che pagano il fatto di scontrarsi con un sistema per molti versi bloccato.

La Scala in dieci anni è cambiata?
La mia prospettiva sulla Scala è singolare: la vedo da molto vicino, ma comunque dall’esterno. Pensando alle potenzialità della Scala vorremmo sempre che i cambiamenti fossero più rapidi: in questo la Scala è il riflesso della città. Ma se guardo indietro mi pare che sia già cambiata molto, e in meglio.

Quando sei entrato in Scala dieci anni fa chi era Direttore musicale?
Riccardo Muti. Però non sono precisamente entrato in Scala: facevo parte di uno studio che lavorava per la Filarmonica. Io vengo dall’Orchestra Verdi. Ho cominciato a occuparmi di marketing e comunicazione dello spettacolo al Piccolo Teatro con Giovanni Soresi. Mi avevano proposto di occuparmi della libreria teatrale. Era il primo tentativo di fare una libreria importante al Piccolo. Ci lavorai per un paio di anni e mi divertii molto.

Adesso la libreria è cambiata?
Adesso hanno fatto questa operazione bellissima nel chiostro di via Rovello. Quando lavoravo io era stato ricavato un ambiente all’interno del foyer dello Strehler. C’era sempre un conflitto scherzoso tra me e Soresi, che diceva: “Noi dobbiamo essere una vetrina dei teatri d’Europa!”. Voleva il merchandising dei teatri europei. Io invece volevo più libri. Alla fine del mese vendevamo sempre libri e merchandising in parti eguali, e fu un buon inizio. Avevamo ragione entrambi!

Chi c’era al Piccolo?
C’era già Escobar.

Dopo il Piccolo cosa hai fatto?
Dopo il Piccolo sono andato all’Orchestra Verdi come capo ufficio stampa. C’era Chailly. Ci siamo conosciuti in quel periodo. Era un periodo incredibile per la Verdi e da Corbani ho imparato molto.

Nasceva in quegli anni?
No, aveva già una storia. Era un mondo di grandissimo entusiasmo. Anche adesso è una realtà molto importante per la musica a Milano. Ricordo l’importante presenza internazionale dell’orchestra: le tournée in Sud America e in Giappone sono state le mie prime esperienze importanti di lavoro all’estero. In Giappone c’era, con Chailly, Martha Argerich, un mito. Tendenzialmente non mi faccio mai fare autografi o fotografie con gli artisti e non mi piace il rito degli omaggi in camerino, però con lei mi feci fare una fotografia.

Che rapporto hai con gli artisti dopo un concerto?
Naturalmente si salutano gli artisti alla fine del concerto e, se nasce spontaneamente, faccio un complimento; ma non troppo spesso. Lavorando tutti i giorni con gli artisti trovo ridicolo andare tutte le sere da loro a dire che quella sera è stata unica.

Tu scrivi bene?
Non sono io a doverlo dire. Io provo a scrivere bene.

Ti piace scrivere?
Sì.

Sei molto colto?
Ma no!

Sei abbastanza colto per scrivere. Io ho una cultura istintiva. Però sono creativa. Tu sei molto discreto.
Penso di sì e mi dicono così. Sono una persona relativamente riservata.

E dentro di te come sei? “Scoppieresti” qualche volta?
Qualche volta scoppio.

E quando avviene, cosa succede? Diventi più creativo?
Sono più creativo o più distruttivo, dipende.

Nel lavoro sei esatto e preciso?
Direi di no, non sono particolarmente preciso. Sono una persona che lavora molto; non mi risparmio.

Come ti sei trovato con Chailly? E dopo la Verdi cosa hai fatto?
Alla Verdi, con Chailly, mi sono trovato molto bene. Si lavorava sempre con artisti di grande livello, pur nelle difficoltà. Poi a un certo punto per me le cose in quella realtà hanno smesso di funzionare. Ti dirò la verità: ho deciso di comprare una casa e ho fatto un mutuo. Questo rendeva impossibile lavorare alla Verdi! Non avevamo sicurezze sui tempi di pagamento dello stipendio; tanto che la mia famiglia mi diceva: “Il tuo non è un lavoro, è un hobby”. Così mi licenziai senza avere un altro lavoro.

Quanto tempo sei rimasto senza lavoro?
Poco più di un mese.

Sei arrivato allora alla Scala?
Alla Filarmonica. Penso che alla volte si debbano rompere legami e prendere decisioni. Mandai un bigliettino a Chailly con scritto: “Caro maestro è stato un onore e un piacere lavorare con Lei. Se non lo farò più è per le ragioni più banali e necessarie”. Lui mi salutò e mi fece tanti auguri.

E poi cosa è successo?
Molti giornalisti mi fecero telefonate di augurio e di incoraggiamento; furono molto gentili. La Filarmonica aveva da poco iniziato a collaborare con un nuovo studio di comunicazione, lo Studio Pellegrini. Erano e sono molto bravi nel found-raising e nella comunicazione, e avevano bisogno di un giovane che si occupasse dell’ufficio stampa: scelsero me.

Lì ti pagavano?…
Con assoluta puntualità e lavorai benissimo con loro anche su altri progetti. Nel 2005, con l’addio di Muti al Teatro e alla Filarmonica, le carte si rimescolarono. Ricevetti una telefonata da Schiavi, il Direttore Artistico.

Adesso cambierà la Sovrintendenza e ci sarà un nuovo Direttore Musicale; cosa accadrà secondo te?
Sicuramente il forte desiderio è che anche il nuovo direttore musicale continui a sviluppare i progetti con la Filarmonica.

Quale può essere il ruolo del Direttore Musicale?
La Filarmonica ha avuto, nella sua storia, un solo Direttore principale, che è stato Riccardo Muti. Abbado non volle la carica, seguendo il modello dei Wiener Philharmoniker, dove il Direttore principale non c’è. Nell’ultimo periodo c’è stato un forte legame con Daniel Barenboim, che tra date in stagione, cicli e tournée ha realizzato in pochi anni un cospicuo numero di concerti.

Hai lavorato anche con Abbado?
Ho lavorato per lui per alcuni concerti a Bolzano con la Gustav Mahler Jugendorchester.
Nel corso di questi dieci anni la Filarmonica è stata la mia attività principale, ma ogni anno prendo un altro impegno; ho lavorato per diversi festival: ho fatto il Cantiere di Montepulciano, per diverse estati e, con grande gioia, ho partecipato al Bolzano Festival Bozen.

Perché “con grande gioia”?
Sono molto amico delle persone che lo organizzano e lavoro molto bene con loro. Sono riusciti a portare a Bolzano una gamma di esperienze musicali diverse. Per me è un’atmosfera con pochi confronti: ci sono esperienze di musica contemporanea, musica antica, orchestre giovanili, il Concorso Busoni… Insomma, è molto stimolante.
Poi mi sono occupato, cosa che ha ricucito un vecchio legame d’affetti, del Festival Pianistico internazionale Benedetti Michelangeli di Brescia e Bergamo.

Quanto dura questo festival?
Dura circa un mese.

Dove ti diverti di più? Ai festival o alla Filarmonica?
È bello avere le due cose. Dall’anno scorso, poi, ho intrapreso una nuova esperienza a Macerata insieme a Francesco Micheli.

Ci sono state persone o artisti o esperienze che hanno influenzato la tua personalità, la tua carriera?
Dovrei distinguere tra quelli che ho conosciuto e quelli che non ho conosciuto. Richter, che ho ascoltato tante volte, è stato una figura fondamentale del mio immaginario musicale, ma non ho mai lavorato per lui. I due direttori che ho seguito di più negli anni sono stati Riccado Chailly e Riccardo Muti. Muti è il direttore d’opera che ho visto più spesso perché molti anni prima di lavorare per lui alla Filarmonica ho fatto per un certo tempo la maschera alla Scala per mantenermi agli studi. Più recentemente c’è la figura straordinaria di Daniel Barenboim. Invece dal punto di vista strettamente lavorativo credo di essere molto cresciuto in questi anni con Schiavi alla Filarmonica; è stata senza dubbio la mia collaborazione più duratura e proficua.

Negli anni hai osservato diversità di pubblico alla Scala?
Certamente il grande aumento dell’accessibilità in questi ultimi anni ha inciso anche sulla composizione, molto più diversificata.

C’è un ambiente molto diverso alla Scala, al Quartetto, alle Serate Musicali?
C’è un nucleo comune di appassionati, poi ciascuno ha la sua fisionomia. La Filarmonica è sostanzialmente rimasta stabile negli anni. La serata unica e il numero limitato di abbonamenti rischiano di rendere complicato il ricambio. Per questo abbiamo cercato di creare nuove occasioni di accesso per pubblici nuovi, anche attraverso i media. Abbiamo inoltre il pubblico delle “prove aperte” che – per estrazione sociale, orientamento culturale, età – è completamente diverso.

Cosa sono le “prove aperte”?
Siamo al quinto anno di questa esperienza. La Filarmonica apre al pubblico l’antegenerale del concerto del lunedì, a prezzi ridotti, grazie al sostegno di UniCredit Foundation che copre le spese. Il ricavato è destinato ad associazioni di volontariato di Milano. Abbiamo cominciato a creare un nuovo pubblico, in parte legato al volontariato, ma non solo. È stata un’esperienza straordinaria. Ogni anno conosciamo e coinvolgiamo quattro o cinque associazioni. L’obiettivo è quello di collaborare con chi opera nel sociale, uscendo da un’idea di cultura come ambito separato: abbiamo fatto assistenza per l’infanzia, aiutato le mense per i poveri…

Bisogna restare uniti per la cultura. Si parla solo di crisi economica, rivoluzioni e massacri. Dentro tutta questa crisi c’è una fettina sottile di cultura, schiacciata come in un sandwich.
Si esce da questa crisi solo se questa fettina di cultura dialoga con gli altri.

Le prove aperte adesso sono ancora per le associazioni?
Certo. Il tema dell’edizione 2014 sarà l’assistenza agli anziani.

Questo è stato importante per aprirvi a un nuovo pubblico?
Certo, senza mai dimenticare o sminuire il ruolo fondamentale degli abbonati. I nuovi campi di attività sono importanti, ma devo dire anche che si è fatta troppa retorica negativa sul fatto che andare a teatro o ai concerti sia anche occasione sociale e formale. A me il vituperato “rito del concerto” piace moltissimo, come mi piace che il teatro e i concerti siano al centro della vita sociale e magari anche delle chiacchiere d’affari. Detto questo noi abbiamo cercato di creare sempre nuove occasioni di coinvolgimento. Vogliamo essere l’orchestra della città: grazie alle prove aperte anche il pubblico che non è mai stato alla Scala si fidelizza. Inoltre apriamo la prova del mattino alle scuole; poi ci sono i cinema e le iniziative gratuite che organizziamo per i bambini delle scuole elementari con Francesco Micheli. Sono concerti didattici: prima c’è una lezione in classe, poi un piccolo concerto a scuola, un concerto all’Elfo, infine lo spettacolo vero e proprio. I bambini sono coinvolti in diverse tappe.

Le tue esperienze sono molto varie e si completano: la Filarmonica, i festival, le tournée, le prove aperte, i bambini…
La Filarmonica è una struttura estremamente snella. Questo ci permette di partecipare a tutte le fasi del lavoro. Siamo sempre tutti coinvolti; una piccola squadra molto affiatata: Schiavi, Renato Duca, Hetel Pigozzi, Alessandra Radice ed io. Per me è stato molto interessante e proficuo seguire tutto il progetto Filarmonica. È questa la ragione per la quale quando mi hanno offerto di lavorare come ufficio stampa per altri teatri, ho sempre rifiutato, anche se l’esperienza in un ente lirico mi interessa. Non solo perderei la squadra, ma anche le mie competenze. L’uffico stampa in sé non mi sembra molto interessante e non mi piace farlo. Lo faccio volentieri a Macerata dove Francesco Micheli sta facendo un lavoro entusiasmante coinvolgendo nel suo progetto culturale l’intera città.

Cosa succederà dopo Lissner?
Non lo so e non sono il più adatto a parlarne. Posso solo dire che nel dibattito di questi mesi, sia nel giro degli amici sia sulla stampa, avrei voluto sentir parlare meno di nomi e più di idee e di progetti.

Cosa augureresti a te stesso?
Mi auguro molte cose dal punto di vista lavorativo. Un anno fa, in tournée a Bad Kissingen, sono rimasto a lungo a chiacchierare, dopo il concerto, con Semyon Bychkov, il quale un po’ a bruciapelo mi ha fatto la stessa domanda, tra il professionale e il personale. Gli ho risposto che dopo tanti anni di lavoro in Filarmonica speravo che questa orchestra rinnovasse l’impegno per creare a Milano quello che i Wiener Philharmoniker, che saranno nostri ospiti nel 2014, hanno realizzato a Vienna: un’orchestra con le radici nel Teatro, ma con orgoglio e intraprendenza proprie, che prosegua con lo stesso scatto dell’inizio; con l’ambizione per una qualità assoluta.
In questi anni di crisi si rischia di perdere la capacità di guardare lontano: invece dobbiamo tutti chiederci come immaginiamo l’orchestra tra dieci anni. Sia Abbado e il gruppo dei fondatori, sia Muti e Confalonieri sono stati un esempio in questo senso. Dev’essere un impegno nostro, ma è anche la città che deve riflettere sull’importanza di avere un’orchestra di livello internazionale e su quali possano essere le condizioni migliori per il suo sviluppo.

La crisi economica ci cambia. Magari in meglio!…
La crisi economica acuisce i problemi contingenti, ma può essere l’occasione per reinventarsi per il futuro. Fermi non si può stare.

Credits: Foto di Francesco Maria Colombowww.francescomariacolombophoto.com

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