Intervista a Matteo Collura

6 maggio 2013

La nostra Presidente Anna Crespi ha intervistato Matteo Collura, giornalista, storico e scrittore. Siciliano di nascita si trasferisce a Milano per lavoro. È il biografo di Leonardo Sciascia. È amico degli Amici della Scala.


Come ti sembra questo Papa?
Intanto definirlo argentino è sbagliato, perché figlio di italiani. Mia madre è nata in Libia, ma non per questo era africana. Certo, lei venne via bambina dalla Libia, mentre lui è rimasto in Argentina. Non mi sembra così aperto come si dice. Secondo me riporterà la Chiesa ai suoi fondamenti. Durante la dittatura argentina il suo atteggiamento non fu chiaro con coloro che prendevano i giovani dissenzienti, li mettevano su un aereo e li gettavano nell’oceano: i cosiddetti desaparecidos. È poi è strano che un gesuita prenda il nome di Francesco, che fu un santo povero, che voleva riportare la Chiesa alle origini. A meno che non abbia voluto riferirsi a Francesco Saverio, il gesuita. Comunque mi fa piacere che non sia un Papa italiano, di curia.

È appena uscito il tuo libro Sicilia. La Fabbrica del Mito; tu sei siciliano, ma vivi a Milano. Questo ti ha cambiato il carattere?
Vivo a Milano da trentacinque anni; se si parte dal luogo dove si nasce entro i sedici anni si cambia, non solo nella parlata, ma anche nel modo di pensare. Io sono partito dalla Sicilia ben oltre i sedici anni, quindi sono rimasto quello che ero. Da Milano ho potuto guardare alla Sicilia da un punto di vista ottimale: la distanza giusta per osservare e giudicare ciò che accade. La Sicilia è considerata una metafora dell’Italia e del mondo; pare sia un laboratorio ideale dove sperimentare le formule politiche che poi serviranno al paese intero.

Sei andato subito a lavorare al Corriere della Sera?
Arrivato a Milano sono subito approdato al Corriere. Era il più grande giornale italiano. Nell’ambiente giornalistico circolava una battuta, ora non più attuale: “I giornalisti italiani si dividono in due categorie: chi lavora al Corriere della Sera e chi vorrebbe lavorarci”. La Repubblica era nata da cinque anni, le altre realtà giornalistiche erano marginali rispetto al Corriere, che all’estero rappresentava il nostro Paese.

Il Corriere era un mito?
Per noi giornalisti lo era.

È’ ancora un mito?
Oggi, l’accesso all’informazione generalizzata dovuta a internet ha dato uno scossone al mito dell’informazione: oggi ognuno può comunicare, dire la sua, trovare le informazioni. Il computer ha cambiato la nostra vita. Giornali come il Corriere e Repubblica selezionano le informazioni, nel pc invece si trova di tutto. Le nuove generazioni non comprano i quotidiani per apprendere le notizie; hanno altre fonti.

Cos’è per te il mito?
È ciò che serve a spiegare quello che non possiamo capire. La Bibbia si fonda su una serie di miti per spiegare eventi che non possiamo capire.

Sono simboli o miti?
Il mito vive di simbologie. I miti fondanti sono simili in tutte le latitudini e i continenti. Quello che cambia è la rappresentazione del mito. La morte, per esempio: quando in Sicilia muore qualcuno, parenti e amici si disperano in maniera parossistica. Questo appartiene alla cultura greca e araba. Tuttavia, pianto e disperazione non vogliono dire che i siciliani sentano di più il lutto, ma che semplicemente celebrano diversamente il mistero della morte rispetto alle genti del nord, che mostrano meno il loro dolore, ma non per questo soffrono meno.

Il mito è necessario?
È necessario perché spiega l’impossibile: come si fa a vivere in un mondo senza dare una spiegazione alla creazione, alle galassie, alla differenza tra uomo e donna, al grandioso o miserabile compiersi della storia? C’è bisogno del mito; porta anche a nobilitare la storia.

Il mito può trasformare la fisionomia della Sicilia?
Il mito è un alibi: La dilagante, assillante presenza della Sicilia nella cronaca nazionale è dovuta proprio al fatto che essa è considerata un mito. I milanesi, per esempio, hanno nei confronti della Sicilia un atteggiamento oltremodo benevolo, per non dire entusiasta, perché la considerano la terra del mito. Tutto, della Sicilia, è mitizzato. Anche la malavita è diventata grande mafia e, perciò, mito; la furbizia siciliana è diventata mito; la mancanza di senso dello Stato, l’idea di non appartenere a uno Stato in cui le leggi siano uguali per tutti, tutto questo fa parte di un mito bugiardo, utilizzato come alibi. La letteratura può spiegare come, in Sicilia, il mito sia un alibi: Federico de Roberto con I Viceré; Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo, e Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia.

La letteratura può spiegare che il mito è un alibi per la Sicilia. La mafia può uccidere il mito?
La mafia se ne serve. Quando noi inquadriamo semplici gesti criminali in un contesto mafioso, è come se volessimo dire che per quei crimini non c’è rimedio, perché la mafia è onnipotente, intaccabile. Ma non è così, i mafiosi vengono arrestati. Dobbiamo riflettere su come sono stati arrestati Riina e Provenzano: erano a casa loro. Questo fa supporre che la mafia viene usata per scopi politici. Se Riina e Provenzano avevano scelto di nascondersi a casa loro, sotto gli occhi di tutti, forse è perché erano convinti che nessuno avrebbe voluto trovarli. Parlando di mafia in termini mitologici si evita di operare laddove davvero si potrebbe cambiare la sorte della Sicilia. La mentalità mafiosa è una cosa, la mafia un’altra. I mafiosi prima o poi vengono arrestati, mentre non viene mai intaccata la mentalità mafiosa, ed è questo che crea problemi. In Sicilia, come in Calabria, se uno ha bisogno di un certificato si rivolge a un amico; se gli viene rubata l’auto si rivolge all’amico per averla indietro in cambio di una compenso: è questa mentalità, l’amicizia che copre tutto e fa da alibi, a rendere forte la mafia.

Parlami del mito della donna.
Il mito della donna è stato demolito già agli inizi degli anni ’40 da Vitaliano Brancati con il Bell’Antonio e Don Giovanni in Sicilia. E’ rimasto vivo soltanto nel cinema e nella letteratura di maniera. Se si guarda la realtà d’oggi, in Sicilia la donna ha fatto più passi avanti rispetto ad altri Paesi più evoluti. È la donna che in Sicilia detta i ritmi in famiglia, nelle compagnie, tra amici. Questo si deve in gran parte al coraggioso gesto, nel 1965, di una ragazza che viveva ad Alcamo, in provincia di Trapani, e che si ribellò al suo stupratore. Questa eroina, rischiando di rimanere zitella, perché additata come donna che aveva perso la verginità e perciò l’onore, rifiutò il matrimonio riparatore, fece arrestare il suo stupratore. Da quel momento si voltò pagina. Sono questi i momenti da segnalare pedagogicamente ai giovani. No, la donna non è più un mito. E’ una realtà dinamica e moderna con cui fare i conti

Forse allora i tempi erano maturi per il cambiamento?
Credo che in quel periodo non ci si pensasse neanche. Accadde e basta. C’è stata una donna che si è sacrificata rompendo un sistema, un’intesa considerata legge.

Eppure, le donne continuano a essere uccise dagli uomini.
E’ vero, oggi le donne vengono uccise più di allora, ma perché si ribellano, non accettano più di vivere come schiave dei maschi. Dicono di no, scelgono, e per questo spesso pagano con la vita.

La Madonna è un mito?
Certo, soprattutto perché è madre. Non soltanto in Sicilia il sentimento verso la madre è il più forte dei legami tra uomo e donna. La mamma è sacra.

I monaci mafiosi di Mazzarino aiutano il mito o lo distruggono?
Servivano a tenere desto il falso mito: erano quattro disperati che potevano essere arrestati subito, se non si fosse pensato che dietro di loro ci fosse chissà quale mafia. Infatti, il processo dimostrò che erano solo quattro ladri di polli con il saio.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa era lucidissimo in ciò che descriveva.
Credo che per capire l’Italia, Il Gattopardo sia il romanzo più importante dopo i Promessi sposi.

La Spedizione dei Mille a cosa è dovuta secondo te?
Avviene perché i siciliani vogliono liberarsi dall’oppressione Borbonica e far parte di una nazione. Giovanni Corrao e Rosolino Pilo si recarono in Sicilia prima di Garibaldi per preparare la rivoluzione e trovarono terreno fertile. Vero è che dovettero fare i conti non solo con i borghesi, gli intellettuali, gli operai, i contadini, ma anche con i mafiosi. In Sicilia questo è normale, trovare mafiosi tra la moltitudine è un dato statistico. In ogni caso, i siciliani aspiravano all’unità d’Italia e tuttora vogliono essere parte di una nazione.

Nasci in Sicilia, tua moglie è siciliana. Quanti anni avevi quando sei venuto via dalla Sicilia?
Trentatré. Ero già maturo.

La tua infanzia come è stata?
La mia infanzia e giovinezza non hanno nulla a che fare con quella che può essere vissuta oggi. Era molto più simile a quella di fine Ottocento o primo Novecento. Noi bambini vivevamo per strada; sono il terzo di cinque fratelli. A undici anni sono andato a lavorare come garzone in una sartoria: ho fatto le scuole lavorando. Non avevo tempo per studiare, per giocare e uscire con gli amici. È stata una perfetta infelicità.

Poi come sei diventato giornalista?
Dalla strada sono approdato all’arte: i miei studi sono di genere artistico. Ho fatto il pittore per un certo periodo. Poi ho fatto il servizio militare e al mio ritorno a casa mi sono reso conto che ero più abile nello scrivere. Del resto, per me scrivere è anche dipingere. E così ho iniziato a fare il giornalista. Fatti gli esami a Roma, sono stato ammesso all’Ordine dei giornalisti professionisti. A quel punto ho voluto lavorare in un giornale d’importanza nazionale, qual è il Corriere della Sera.

Sei un uomo di energia e di forza.
È un dono che ho avuto.

Sei anche molto determinato: grazie alla strada hai amato la natura, hai imparato l’arte, in un ambiente familiare arcaico.
Mia madre era una bambina quando si sposò: aveva quindici anni. Ha avuto la prima figlia a sedici. Sono stato allevato da mia nonna, perché mia mamma era troppo giovane. Avevo due sorelle più grandi e due fratelli più piccoli di me. Ora siamo rimasti in tre.

A undici anni cominciasti a lavorare, e andavi anche a scuola?
Lavoravo e studiavo, non avevo tempo per giocare. La mattina andavo a scuola, al pomeriggio a lavorare. Ma ce l’ho fatta.

Le tue amicizie?
Sono state determinanti. Ho avuto sempre attrazione per quelli più vecchi di me. Per esempio, giunto a Milano, ho conosciuto personaggi che restano fondamentali nella mia esperienze. A parte la mia amicizia con Leonardo Sciascia, che è stata determinante, posso dire di essere stato amico di Carlo Bo, Cesare Musatti, Giancarlo Vigorelli, Gaetano Afeltra, Francesco Messina, Salvatore Fiume, Indro Montanelli, Enzo Biagi. Sono nomi importanti per me, resteranno incisi nella mia vicenda personale.

Questi tanti e importanti amici li hai conosciuti grazie al Corriere?
Non soltanto. Il Corriere spesso mi ha dato l’opportunità di avvicinarmi a loro tramite le interviste. Poi però li ho conosciuti e loro hanno provato interesse per me. E’ nato un bel rapporto.

Sono stati tuoi maestri?
Sicuramente. Sciascia e Vigorelli soprattutto.

Sei inquieto e viaggi molto?
Non amo viaggiare, ma viaggio molto.

Da dove scappi?
Non scappo. Mi piace variare la mia vita. Scappo dalla noia, perché la odio, sono impaziente e ansioso di natura.
Possiamo chiudere l’intervista dicendo che sono ansioso di leggere questa intervista.

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