Intervista a Cesare Mazzonis

6 maggio 2013

Amico di lunga data degli Amici della Scala, Cesare Mazzonis è stato intervistato dalla nostra Presidente Anna Crespi.  L’occasione è stata offerta dalla presentazione del suo libro Ragnatele sul nulla nella nostra sede lo scorso 7 febbraio.

Mi pare di scoprire sempre nuove cose di te. Per esempio, il libretto che hai scritto per Cuore di cane è per me una rivelazione.
Mi era già capitato di scrivere libretti per il teatro di prosa. Questo è il mio primo libretto per l’opera.
Ho scritto due libretti per Luca Ronconi. Uno era una lunghissima pièce teatrale che durava 9 ore: una traduzione da Arno Holz, intitolata Ignorabimus; l’altra era Il bosco degli spiriti per inaugurare un piccolo teatro in Umbria, tre anni fa.
Per Federico Tiezzi ho tradotto l’Antigone di Brecht.

Per non parlare della narrativa…
È vero. Ho anche scritto e pubblicato due romanzi con Einaudi, uno con Feltrinelli, un libro di racconti, un piccolo libro di saggi musicali.

Hai origini torinesi. Anche i tuoi genitori erano interessati di musica?
Mia nonna, la madre di mia madre, discendeva dai conti Radicati di Marmorito di Passerano, che avevano relazioni di parentela con Schumann.
In casa si sentiva e si eseguiva musica. Entrambi i miei genitori suonavano il pianoforte.

Che studi hai fatto?
Ho studiato in Italia e poi dalla fine del ’48 in Argentina, dove mi sono trasferito con la famiglia. A Buenos Aires mi sono laureato in Fisica e Chimica. Studiavo musica privatamente. Poi mi sono trasferito a Londra per quattro anni per studiare musica.

Il tuo percorso musicale era segnato fin dall’infanzia?
Sì, il mio gusto si è formato quando ero bambino.

Quando eri direttore artistico cercavi musicisti, decidevi le opere?…
Decidevo il programma e a chi affidarlo. Sceglievo il direttore, i cantanti, lo scenografo: è il normale mestiere del direttore artistico.
C’erano scambi di pensieri, idee. Anche con i propri collaboratori ci devono essere rapporti e confronti di idee. Ho sempre lavorato in équipe e coinvolto i miei colleghi. Questa modalità ha sempre funzionato sul lavoro e in modo particolare ha sempre favorito i legami affettivi.

All’interno del tuo lavoro sono nate amicizie?
Sì, e sono amicizie durature, anche con molti artisti. Sono grande amico di Zubin Mehta; sono molto legato anche a Seiji Ozawa; avevo un ottimo rapporto con Leonard Bernstein e con Carlos Kleiber di cui conservo ancora le lettere; sono stato amico e collaboratore per lunghi anni di Claudio Abbado; meno duratura, ma intensa l’amicizia con Riccardo Muti. Infine, sono molto affezionato a Luca Ronconi di cui sono grande amico.

In genere l’amicizia si fonda su elementi condivisi. Dalle tue amicizie nasce un arricchimento culturale forte? Tra amici, vi ispirate a vicenda?
Con Luca Ronconi sono legato da un’amicizia intellettuale unica, che va oltre il lavoro. Con gli altri si parla quasi esclusivamente di tematiche e problematiche riguardanti i progetti. Semyon Bychkov, ad esempio, ha fatto tanto per il Maggio Musicale Fiorentino e collabora tuttora con me alla Rai di Torino. Inoltre ho indotto Eimuntas Nekrošius a misurarsi per la prima volta con regie d’opera. Con lui ho realizzato un Boris, il più bello che ho mai visto in vita mia e che ha anche vinto il premio Abbiati.

Mancavi dalla Scala da tanto tempo?
Da parecchio. Sono venuto pochissime volte da quando, nel 2002, sono andato in pensione. Lavoravo a Firenze, ma sono rimasto in qualità di consulente artistico per due anni e mezzo, ho continuato a occuparmi del teatro d’opera. Successivamente, poco per volta mi sono distolto dal mondo dell’opera. Sono andato sempre meno agli spettacoli e quindi anche alla Scala.

Ora che sei tornato alla Scala per Cuore di cane e per la presentazione del tuo libro Ragnatele sul nulla, hai ritrovato ancora i tuoi amici tra i colleghi di un tempo?
Quando hanno presentato il mio libro, qui alla sede degli Amici della Scala, ho incontrato quanti hanno lavorato alla Scala: Fracci, Savignano, Dorella, Franzetti, Bodanza. Ho trovato tutti i vecchi amici con cui ho lavorato per dodici anni. Anche se ci si vede poco, rimane un clima di amicizia e affetto.

Non tutti però hanno il privilegio di creare questo tipo di amicizie…
È vero. Questo avveniva perché si creava un clima di convivenza sul lavoro, con scambi reciproci a ogni livello: dal macchinista al professore d’orchestra, al corista, con tutti coloro che avevano visto e seguito tutte le produzioni.

A te piace isolarti un po’?
Durante gli anni scaligeri ho lavorato anche sedici ore al giorno; l’isolamento mi piaceva molto. Ho una casa in montagna, in un paese dove non c’è neppure il panettiere, e sto molto bene in solitudine.

Ne senti il bisogno?
Sento molto il bisogno di stare solo. In questi anni mi ha aiutato la scrittura, perché scrivere significa isolarsi con se stessi.

Vedendo Cuore di cane mi sono divertita. Mi ha coinvolto, anche grazie al libretto: ero stupefatta per come eri riuscito a entrare in contatto e dialogare con il compositore.
Dipende anche dal fatto che a me piace molto Bulgakov; è di una ironia straordinaria; riesce a trattare argomenti molto seri con una leggerezza assoluta e a rilevare il lato grottesco delle cose, del regime sovietico e della società del tempo: mi è piaciuto fare il libretto. Nel prepararlo, il compositore e io ci siamo incontrati varie volte, come accade sempre quando si realizza un libretto d’opera. Il libretto è nato da un mio studio sull’autore e dal confronto con il musicista.

Mi sembra che da questa collaborazione siano nati due Cuore di cane…
Sì. Sono emersi due Cuore di cane: il compositore con la sua musica ha dato maggior rilievo al lato drammatico rispetto a quello grottesco che io avevo imposto. Nel secondo atto emerge in modo particolare la drammaticità del finto uomo-nuovo sovietico, un uomoche in realtà si rivela un pessimo soggetto. Tuttavia anche nel secondo atto ci sono situazioni divertenti e grottesche.

Nella vita reale ci sono trasformazioni: le hai vissute anche tu? Ragnatele sul nulla è come un percorso della tua vita?
È un libro a cui ho lavorato per quasi trent’anni, tornandoci sopra ogni volta tra un lavoro e un altro libro; lasciandolo da parte per un paio d’anni e poi riprendendolo.
In questi trent’anni sono cambiato. Tutta la vita è cambiamento, non solo quella lavorativa.

Come sei adesso?
Ci ho riflettuto molto. Ragnatele sul nulla è un libro che parla di pensieri propri e altrui, come un tessuto che si lega, formando una copertura, qualcosa che nasconde quello che penso sia il destino dell’uomo: quello di finire nel nulla, una volta che si muore. Questo non esistere più dell’“io” mi angosciava molto. Dopo questi trent’anni, forse perché ne ho scritto così lungamente, ho messo da parte questa paura. O forse sono invecchiato e trovo che questo “nulla” sia accettabile.

Tutti i personaggi dei tuoi libri che creano una ragnatela che si costituisce come un affresco di immortalità.
Questa ragnatela è l’opposto del nulla: è una copertura. Come il ragno crea la ragnatela da una sostanza che ha dentro di sé, io creo la mia ragnatela con i miei personaggi, le mie favole, i miti, la letteratura.

Questo velo leggerissimo e fragile presenta una geometria e una logica perfette. Tu parti da una struttura perfetta per creare la tua ragnatela?
C’è di fondo una struttura solida. Il libro è suddiviso in quatto parti, in maniera molto razionale.

Sei pessimista o ottimista?
Generalmente sono pessimista; ho degli ottimismi parziali.

Sei ansioso?
Solo per alcune cose.

Dopo aver letto il tuo libro, mi sembra di aver conosciuto un Cesare Mazzonis diverso: per un periodo ho provato soggezione nei tuoi confronti; poi con il passare degli anni la nostra amicizia non è stata solo lavorativa, ma anche di vita. Io con la vita sono diventata serena, ma anche più indifferente: la tua vita come è cambiata?
Ora mi sento più indifferente alla fine, alla morte. Sono attaccato ai miei affetti, li porto con me, non mi sono mai distaccato da famiglia, figli, nipoti, amici. Mi chiedevi prima se sono ansioso. Ebbene, posso essere in ansia per queste persone, sono abbastanza vulnerabile in questo senso.

Ho capito che ognuno è un “sé”, nessuno ci appartiene.
È una constatazione che facciamo tutti: malgrado gli affetti che ci possono legare, ognuno è un’individualità ben distinta dalle persone che lo circondano.

Questo è anche triste.
Ognuno deve rinunciare all’idea molto umana per la quale ogni cosa a cui siamo attaccati dovrebbe appartenerci, ma non è così.

Hai figli?
Ho un figlio dal mio primo matrimonio e una figlia dal secondo. Il maggiore vive in America da un anno, ha da poco avuto una bambina.

Crescevate insieme, mentre lavoravate, tu e tutti i grandi personaggi che hai incontrato?
Io sicuramente ho imparato moltoda questi incontri; forse qualche cosa hanno recepito anche loro.

Tu hai vissuto tanto all’estero?
Ho vissuto tanto in Argentina, tutta la mia adolescenza; ho trascorso diversi anni in Inghilterra, sono andato diverse volte in Russia: la mia attuale moglie ha vissuto quattro anni in Russia e ho una certa dimestichezza con la lingua e la cultura di questo Paese.

Se tu non vivessi a Firenze, quale sarebbe la tua città?
Per molti anni la mia città è stata Buenos Aires: la città nella quale si cresce durante l’adolescenza è la città a cui uno si lega di più. Ho moltissimi affetti ed amicizie a Buenos Aires.
Ho vissuto quattro anni a Londra, a Roma docici anni, dodici anni a Milano, ora sono da vent’anni a Firenze. So qual è la mia casa, non qual è la mia città.

Qual è il tuo rapporto con le donne?
I rapporti profondamente affettivi sono pochissimi; le storie più leggere molte. Mio padre mi diceva che quando avevo due anni, ero sempre innamorato.

Ci sono gli innamoramenti e l’amore?
L’amore si costruisce giorno per giorno; l’innamoramento è adrenalina. Gli innamoramenti tirano fuori l’anima; nel momento in cui ti presenti alla donna di cui sei innamorato ti ri-racconti, presenti un quadro di te stesso. Questo non esiste più nella vita in comune: la persona con cui vivi conosce tutto di te, non hai più il piacere di più ri-narrarti.

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