Intervista a Arnaldo Pomodoro

2 dicembre 2013

Per l’occasione della nomina di Arnaldo Pomodoro a Socio Onorario, pubblichiamo l’intervista che la nostra presidente Anna Crespi ha fatto al Maestro.

Arnaldo Pomodoro e Anna Crespi il giorno della sua nomina a Socio Onorario degli Amici della Scala (Foto Roberto Taddeo)

Vorrei accostarmi alla Sua anima di scultore e alla Sua anima di uomo.
La mia vita di uomo e la mia vita di scultore sono la stessa cosa.

A che età ha scoperto l’arte?
Da bambino, quando andavo a giocare sulle rive del fiume Conca e con la sabbia mescolata all’argilla disegnavo e costruivo forme fantastiche. Questo “scavare” dentro la terra, immaginare paesaggi, è stata forse l’origine della mia opera.
Ho cominciato poi a leggere tantissimo, fin da adolescente: gli scrittori americani pubblicati nella collana di Pavese e Vittorini per le edizioni Einaudi, e poi Kafka, Freud, Kierkergaad, Sartre, i testi del teatro classico… La lettura mi ha aiutato ad esprimere quello che sentivo e a far capire quale era il mio mondo.

La sabbia era già scultura, ma quali erano gli altri giochi preferiti?
I miei pochi giocattoli li smontavo: ricordo che i miei genitori si arrabbiavano molto, ma io volevo scoprire gli ingranaggi, i meccanismi interni che mi affascinavano e sviluppavano la mia immaginazione.

Quali origini ha la Sua famiglia?
I Pomodoro provengono dalla Puglia, mentre il ramo materno della famiglia è di Orciano, vicino a Pesaro: ricordo che la porta del paese era dedicata al mio bisnonno Antonio Spadoni. Mia nonna materna sposò un Pomodoro che era venuto a Orciano. Una famiglia quindi per metà marchigiana, per metà meridionale, che sono poi le mie due radici principali.

Com’erano i paesaggi del Montefeltro?
Il Montefeltro è un territorio tra le Marche e la Romagna, dove la linea di confine è segnata dal fiume Metauro, che entra ed esce tra le due regioni, come una serpentina. È una parte d’Italia meravigliosa dove la pietra e l’architettura si integrano magnificamente: sembra che le rocce, le fenditure, la natura stessa siano i resti di antiche città.

La Sua famiglia ha sempre vissuto nel Montefeltro?
La mia famiglia abitava nel punto più alto di Orciano, vicino al castello e alla porta di ingresso al paese. Ho frequentato la scuola media e poi le superiori a Rimini, ma il mio principale riferimento era Pesaro con la Biblioteca Oliveriana, l’Istituto d’arte “Mengaroni”, il Teatro Rossini, centro di tante iniziative e mostre interessanti.

C’è sofferenza nel lavoro della scultura?
L’artista cerca sempre se stesso nel profondo: è pressato dalle emozioni e dai sentimenti, nel suo intento di uscire dall’angoscia e sentirsi liberato mentre compie la propria opera. E questo è un percorso difficile.

Disegna anche?
Certamente, ma per me è importante soprattutto il contatto con la materia che ho bisogno di toccare e di trasformare.

Cosa significano i segni che Lei traccia?
Mi hanno sempre affascinato tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti.

È faticoso fare lo scultore?
La scultura si realizza in più momenti, a differenza della pittura che può venire da una gestualità immediata: richiede quindi fatica e costante impegno fisico. Perciò, lavoro e tempo sono uniti per me in un modo complicato e stimolante.

Quale materia usa?
La creta: imprimo nella creta con le mani e con tanti attrezzi diversi (spatole, coltelli, cunei, corde…) la forma al negativo. L’impronta si trasferisce, attraverso procedure complesse, prima al gesso, poi allo stampo in gomma siliconica, sul quale viene colata la cera, per arrivare infine alla fusione in bronzo. Insomma, è la terra che dà vita alla scultura.

Cosa La ispira?
L’idea mi viene a volte dai ricordi e dalle suggestioni raccolte nei miei viaggi, in Egitto, nello Yemen in Turchia… Quando ho visitato il museo di Ankara per la prima volta, confesso che avrei sottratto volentieri qualche tavoletta, affascinato da quelle scritture illeggibili.

È la nascita del linguaggio.
Certo, penso, anzitutto, all’Epopea di Gilgamesh, primo grande testo poetico e allegorico sull’esperienza umana, inciso su tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi, nel 2000 a.C. circa. Per esempio, nella tavola IX del poema è scritto: “Amarezza si impadronì del mio animo, la paura della morte mi vinse ed ora io vago in una steppa”.

Come quando era vicino al fiume?
Le impronte irregolari o fitte che scavo nella materia artistica, i cunei, le trafitture, i fili, gli strappi, vengono proprio da lontane civiltà arcaiche.

E le rocce?
Le rocce mi affascinano, forse perché vi si può leggere il senso della storia e della continuità del tempo.

Come è nata la Sfera?
Quando ho iniziato la ricerca sui solidi della geometria euclidea era perché volevo investigarne l’interno: di essi la sfera è la forma perfetta, magica. Tutto quello che c’è dentro la sfera è proprio la vitalità, l’energia. Guardando la sfera sembra che la materia possa scindersi all’improvviso in un campo di forze…

Preferisce la sfera?
La sfera è un oggetto straordinario perché riflette qualsiasi cosa ci sia attorno e crea contrasti tali che a volte si trasforma e non appare più, resta invece il suo interno, tormentato e corroso, pieno di denti e di grovigli. La mia prima Sfera aveva un diametro di un metro e 20 centimetri: quando me ne chiesero una di oltre tre metri e mezzo per l’Expo di Montreal nel 1967, passai mesi di fatica. Temevo che i miei segni, ingigantiti, diventassero troppo “meccanici”.

È importante il sole?
Certo, è la luce, il calore, la vita… Mi piace ricordare l’articolo di Mario Soldati sul Corriere all’indomani della collocazione del mio Grande disco in piazza Meda, dove è scritto: “…la materia tutta irregolare, lavorata, martellata, strapazzata, insomma viva nel suo splendore solare…”.

La scultura cambia gli spazi aperti, come le piazze?
La scultura è una presa di un proprio spazio entro lo spazio maggiore, dove si vive e ci si muove e diventa così il modo di mutare il senso di una piazza, di un ambiente e inventare uno spazio per la dimensione urbana. L’ideale per uno scultore è ambientare le proprie opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni.

Quali sono i Suoi modelli?
Primi fra tutti Brancusi e Klee, dal quale ho forse tratto il “segno” stilistico per cui tutti mi riconoscono, ma anche Medardo Rosso, Boccioni, Dubuffet… Fondamentale è stato poi il rapporto con Lucio Fontana, senza dimenticare la lezione del Costruttivismo, che per me è stato un movimento importantissimo, più ancora del Dadaismo o del Surrealismo, ed è un riferimento che da sempre mi accompagna.

Ha fatto anche una scultura in memoria di Federico Fellini?
L’ho pensata con il ricordo visivo della grande metafora o immagine da lui dedicata alla nave (sia in E la nave va, sia in Amarcord). La scultura è come la prua di una nave che sembra tagliare un percorso ideale attraverso la terra, l’acqua, l’aria: rappresenta per me la grandezza dell’opera di Fellini che, aldilà della vita, continua a percorrere il tempo e l’esperienza umana.

Lei da bambino ha avuto l’occasione di entrare e lavorare in teatro?
Grazie a un zio barbiere che era diventato il parrucchiere di fiducia degli attori, sono salito sul palcoscenico del teatro Amintore Galli di Rimini, dove vestito da valletto aiutavo ad aprire e chiudere il sipario, pesantissimo, di velluto rosso.

Quando lavorava in teatro, Le sarebbe piaciuto dirigere l’orchestra?
Nel mio studio con tutti i miei collaboratori sono anch’io, in un certo senso, un “direttore d’orchestra”.

Lei ha dato la sua arte anche al teatro e ha conosciuto personaggi teatrali. Ha lavorato con Luca Ronconi?
Con Ronconi, che mi fu presentato da Franco Quadri, ho fatto la Käthchen von Heilbronn di Heinrich von Kleist, sul lago di Zurigo nel 1972.

E con Filippo Crivelli?
Abbiamo messo in scena a Gibellina la trilogia dell’ Orestea di Emilio Isgrò da Eschilo. Crivelli è intelligente e sensibile e insieme abbiamo lavorato in grande armonia.

E a proposito di Franco Quadri?
Con Quadri c’è stato un vero sodalizio: la nostra amicizia e collaborazione risale fin dai primi anni del mio trasferimento a Milano. In molte occasioni è stato un riferimento importante e uno stimolo per il mio lavoro teatrale.

Ha lavorato anche alla Scala?
Alla Scala ho lavorato con Ermanno Olmi all’opera Teneke di Fabio Vacchi rappresentata in prima assoluta nel 2007. Avevo realizzato una complessa scenografia materica che, come una collina di terra, ricopriva l’intero palcoscenico.

Era una grande scultura?
Enorme. Quando si è aperto il sipario si vedeva solo questa montagna di terra e acqua e c’è stato subito un applauso a scena aperta.

E cosa è successo a questa scultura?
Purtroppo è stata distrutta, come succede sempre con le scenografie. E’ stato un peccato, ma questo è il teatro che gioca con la realtà e crea mondi immaginari e fugaci.

Ha fatto anche costumi per il teatro?
Molto spesso mi sono occupato anche dei costumi. E ora sto lavorando per il Teatro Greco di Siracusa, di cui proprio nel 2014 cade il centenario. Ho ricevuto l’incarico di fare l’allestimento scenico e i costumi per tutti i 4 spettacoli della prossima stagione.

È un lavoro che La diverte?
Con i costumi mi sono sempre divertito molto e ho realizzato abiti e accessori insoliti, a volte difficili da indossare per gli attori. Ricordo Pamela Villoresi che portava tutto con grande disinvoltura e anche Anna Nogara ha sempre saputo entrare in simbiosi con i costumi creati per lei, in particolare con gli ornamenti anche quando erano pesanti e ingombranti.

Ha vissuto anche negli Stati Uniti?
Il sogno di andare negli Stati Uniti era già dentro di me quando, verso la fine della guerra, aspettavamo che passasse la Quinta Armata americana. Poi diventa un progetto concreto che ho potuto realizzare nel 1959 grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri. Sono partito con il desiderio di dare una svolta al mio lavoro.

Ci è riuscito?
Quel viaggio negli Stati Uniti ha avuto un’importanza fondamentale. L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. È qui che ho una folgorazione: osservando le sculture di Brancusi sento che esse mi danno tanta emozione fino a provocare un desiderio di distruzione e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene quindi l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale e astratta.

Quando si è trasferito a Milano?
Sono arrivato a Milano con mio fratello Gio’ nel 1954, nel pieno della ripresa e della ricostruzione, dopo le devastazioni della guerra. Milano a quei tempi era piena di vitalità, con una forte impronta internazionale. Ho iniziato subito a frequentare gli artisti e gli intellettuali che animavano la vita culturale milanese e si ritrovavano al bar Giamaica. Fondamentale l’incontro con Fernanda Pivano e Ettore Sottsass e, attraverso di loro, con la cultura americana.

La splendida Fondazione Pomodoro, in via Solari, era uno degli spazi più straordinari di Milano.
Sin dalla nascita della Fondazione nel 1995 desideravo aprire un luogo che non fosse celebrativo del mio lavoro, ma rappresentasse un laboratorio di idee e iniziative per l’arte e la conoscenza e un punto di incontro e partecipazione per la vita culturale della città. Tutto era partito molto bene con la grande mostra sulla Scultura italiana del XX secolo ed è proseguito per diversi anni. Ma poi è mancato quel sostegno, soprattutto da parte delle istituzioni, su cui pensavo di poter contare.

Perché?
Forse volevo volare troppo in alto. Nel frattempo si è aggravata la crisi economica generale e ho dovuto prendere la decisione di chiudere quello spazio espositivo.

… e ha trovato questa una nuova sede.
Ho trovato questo spazio in via Vigevano 9, situato presso la Darsena dei Navigli e adiacente agli archivi della Fondazione e al mio studio: qui dallo scorso anno è ripresa l’attività espositiva con l’intento di promuovere una ricerca autentica e approfondita sui fatti dell’arte, piuttosto che inseguire iniziative roboanti ma di poco contenuto. La scelta è che in prospettiva la Fondazione inglobi il mio studio e diventi una sorta di studio-museo, cioè un luogo di conoscenza e di elaborazione che parli sì del mio lavoro ma che riguardi anche, nel suo complesso, la pratica della scultura e dell’arte, mantenendo così immutata la sua funzione.

Milano è cambiata da quando ha iniziato a lavorare?
Purtroppo è molto cambiata. Manca quel clima straordinario di incontri, scambi, collaborazioni nazionali e internazionali che avevano caratterizzato la vita culturale di Milano degli anni ’50 e ’60.

Milano Le ha dato tanto?
È la mia città da 60 anni e non potrei vivere in nessun altro posto, anche se vorrei la Milano che ho trovato quando vi sono arrivato; ma forse sono io che ho nostalgia di quel periodo.

Ci sono costruzioni, a partire dal Dopoguerra, che La scandalizzano?
Tutto lo sviluppo di Milano nelle periferie mi sembra che non abbia seguito criteri di qualità, ma sia stato piuttosto determinato da scelte speculative.

Cosa pensa dei nuovi grattacieli?
Sono interessanti. Dopo la Torre Velasca dei BBPR e il Pirellone progettato da Gio’ Ponti, Milano ha ritrovato quella forza e quello spirito innovativo. La zona di Porta Nuova e il complesso di Cesar Pelli sono straordinari, perché hanno creato un concetto nuovo e internazionale di spazio.

Le piace questa zona di Milano?
E’ una zona che ho amato fin dal mio arrivo a Milano. Dalla fine degli anni ’60, quando il quartiere di Porta Ticinese non era ancora di moda, ho lo studio qui, tra i cortili, gli alberi, le case e i Navigli leonardeschi. Nonostante molti artigiani siano da tempo spariti, intorno a me fino a poco fa c’era ancora un’isola felice: se aprivo la porta e percorrevo la casbah dei cortili di Vicolo dei Lavandai, trovavo il fabbro, il falegname e gli artigiani di cui avevo bisogno… Ormai anche questa parte di Milano è diventata caotica e faticosa, ma resta una zona a cui sono profondamente legato.

Lei si ritiene contemporaneo o già nel futuro?
Credo che le mie opere esprimano una sensazione ambivalente di rispetto per il passato e di ammirazione per la tecnologia e per il progresso, inteso come aspirazione a nuove scoperte e conoscenze.

Quali letture preferisce?
Leggo con passione molte cose diverse, ma in questo periodo mi interessa soprattutto la saggistica perché sa cogliere le dinamiche del nostro tempo e aiuta la riflessione e l’approfondimento. Voglio citare in particolare Jacques Attali e Richard Sennet: le loro analisi sono davvero molto stimolanti.

È stato a Venezia a vedere la Biennale d’Arte?
Sì, anche quest’anno ho visitato la Biennale e l’ho trovata come sempre interessante. Penso che rispecchi con coerenza il momento difficile e incerto che stiamo vivendo e denunci la situazione che coinvolge l’intero sistema dell’arte, con continui capovolgimenti di senso e una frammentazione di linguaggi. Io credo che al centro di ogni operazione artistica, oltre al senso etico, debba sempre esserci un’idea, un’invenzione, un gesto innovatore.

Qual è Suo rapporto con la fotografia?
La considero una forma di espressione importantissima. Ho conosciuto e frequentato dei grandi fotografi che hanno saputo cogliere l’essenza della mia opera: hanno realizzato immagini straordinarie e fissato momenti irripetibili del mio lavoro. Voglio ricordare in particolare Ugo Mulas, che ci ha lasciato davvero troppo presto, e Nini Mulas e Carlo Orsi. Con loro si è creato un forte legame di amicizia e di collaborazione e un’intesa profonda.

Ha ricevuto molti riconoscimenti. La aiutano, sono importanti per Lei?
Ho ricevuto tanti premi importanti che sicuramente mi hanno incoraggiato, ma ogni volta ho provato un certo turbamento perché sentivo aumentare la mia responsabilità etica e intellettuale e la consapevolezza che il cammino di un artista non permette arresti né pause.

Ha collaborato anche con Sua cugina Teresa Pomodoro?
Sì, ho sempre avuto un bel rapporto con mia cugina Teresa, che purtroppo è scomparsa nel 2008. Ha creato il Teatro Noh’ma, che ora la sorella Livia continua a dirigere con eguale passione: vorremmo organizzare un’iniziativa, con Antonio Calbi che l’ha conosciuta molto bene anche lui, per ricordare la sua straordinaria opera e far conoscere meglio i progetti che abbiamo realizzato insieme.

Con i Suoi fratelli va d’accordo?
Con mio fratello Gio’, scomparso nel 2002, abbiamo condiviso un intenso sodalizio nel primo periodo della nostra attività artistica, poi ognuno ha seguito un suo proprio percorso di ricerca. Mia sorella Teresa mi è sempre stata vicina, mi ha sostenuto in tutti i progetti e tuttora lavora al mio fianco, occupandosi anzitutto degli aspetti organizzativi e gestionali.

Lei crede in Dio?
Non sono credente, anche se penso che ci siano valori etici e principi universali a cui noi tutti dobbiamo fare riferimento.

Non crede che L’abbia messa sulla terra per fare quello fa?
Forse… Di certo so che non avrei potuto fare niente di diverso.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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