Intervista a Luigi Mignacco

8 maggio 2014

Qualche giorno fa si è tenuto alla storica Società del Giardino una conferenza dal titolo “Nuvole in Giardino. Conversazioni sulla storia del fumetto”.

L’originale e interessante incontro ha visto protagonisti, oltre al Direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, che ha iniziato proprio al Corriere dei Piccoli, tre “grandi” del mondo del fumetto contemporaneo: Alfredo Castelli, storico del fumetto e sceneggiatore, Mauro Boselli, autore e curatore di Tex Willer e Luigi Mignacco, sceneggiatore di fumetti.

Partendo dalle origini ottocentesche del fumetto, si è parlato poi del mito del Corriere dei Piccoli, divenuto poi Corrierino, nato proprio a Milano, passando per i capisaldi della Bonelli Editore fino a oggi.

E proprio Luigi Mignacco è il protagonista della nostra nuova intervista!

Luigi Mignacco
Luigi Mignacco (fonte: web)

Lo scorso 7 maggio (2013 n.d.r.) abbiamo presentato un libro edito da Rosellina Archinto, L’armonia delle tenebre. Musica e politica nella Germania nazista.
Bel titolo, la prima parte andrebbe bene per un… Dylan Dog! Certo, l’argomento è molto serio e drammatico, anzi tragico. Il rapporto fra l’arte e il male, fra un regime totalitario e totalizzante come quello nazista e il mondo della musica, che è un’esperienza totale ma libera, mi sembra un tema intrigante. Ma un po’ troppo impegnativo per un “fumettaro” come me!

Secondo te con i nuovi mezzi di comunicazione si può fare del male?
I mezzi di comunicazione dipendono dall’uso che se ne fa: la rete può essere un formidabile strumento d’informazione, di conoscenza e di ricerca, ma va frequentata con intelligenza. Una persona deve esercitare uno spirito critico su ciò che sta leggendo, che sia un articolo di giornale o una pagina di internet. E comunque meglio è che non sia una frequentazione ossessiva!

Qualche anno fa sono andata a Tobego con Pollini; c’era anche Gae Aulenti. Per tutto il giorno Pollini ha lavorato; Gae Aulenti aveva molta nostalgia per la città. La sera ci sedevamo a tavola tutti in silenzio. Siamo stati molto bene insieme perché ci sentivamo senza parlare.
Sicuramente avevate molte cose in comune lo stesso! Si sta bene con una persona quando si può anche tacere insieme: se c’è una vera affinità, ci si fa compagnia anche in silenzio. E lì forse il paesaggio e il tempo libero meritavano di essere ascoltati insieme.

Tu sei un investigatore dei sogni? Quali sono le tue origini?
“Investigatore dei sogni” mi sembra una bella definizione. Io sono un sognatore, anche a occhi aperti, ma poi mi piace riflettere su quello che ho sognato. E raccontarlo agli altri, magari scrivendo. Sono originario della Valle Borbera, che si trova nel basso Piemonte, nella zona che confina con Lombardia, Liguria ed Emilia. È un angolo di Appennino un po’ isolato, qualcuno l’ha definito “un’isola fra i monti”. Ha una tradizione musicale autonoma, che gli etnologi chiamano “cultura delle quattro province”. Adesso è un posto un po’ fuori dal mondo, ma in epoca medievale queste zone erano popolate; i boschi erano una risorsa perché fornivano legna da ardere e castagne, si praticava l’allevamento in alpeggio. Era un territorio economicamente autonomo e un’importante via di comunicazione tra la Pianura Padana e le coste liguri. Grazie ai valichi bassi qui passava una delle famose “vie del sale”.

Fino a che età sei rimasto lì?
A diciannove anni sono andato all’università a Firenze.

Poi ti sei trasferito a Milano?
Ho iniziato a lavorare nel mondo del fumetto e con editori milanesi abbastanza presto, ma rimanendo nella mia valle che è a un’ora di auto da Milano. Dopo i trent’anni ho messo su casa a Milano ma la mia “base” è rimasta in Val Borbera.

Il tuo paese, le regioni che si sfioravano, ti hanno influenzato?
Sicuramente. L’influenza della cultura tradizionale viene dai miei nonni, dalla mia famiglia, anche se noi abbiamo sempre vissuto in modo abbastanza borghese, “cittadino” pur abitando in campagna. Mia mamma è un’insegnante in pensione, mio padre era imprenditore edile. E poi il mondo di oggi, con la televisione e i mezzi di comunicazione di massa, fornisce gli stessi modelli un po’ ovunque.

Tu hai mai vissuto la campagna?
Solo come sfondo dei miei sogni. Sono sempre stato un sognatore, come ho già detto.

Hai fratelli o sorelle?
Tre fratelli. Io sono il primogenito.

Ti piace star solo?
Apprezzo la solitudine, ma mi piace stare con gli altri. Diciamo che un po’ di solitudine ogni tanto non mi fa soffrire.

Come hai deciso la tua strada?
In un certo senso, io ho “sognato” il mio lavoro, prima di realizzarlo: sono sempre stato un lettore appassionato e fin da adolescente volevo diventare scrittore. Non uno scrittore “serio”, ma un autore di narrativa d’evasione: di gialli, fantascienza, horror. Adesso anche in Italia ci sono numerosi scrittori “di genere”, ma negli anni ’70 non c’era molta possibilità di diventare un professionista in questo campo.

Hai iniziato a lavorare sui tuoi sogni. Lavori per i ragazzi?
Come tutti quelli della mia generazione, leggevo tantissimi fumetti e m’incuriosivano i meccanismi creativi che ci stavano dietro. Ho pensato che il mio sogno di diventare scrittore si sarebbe potuto avverare col fumetto. Avevo vent’anni e mi proposi come sceneggiatore alla casa editrice Lancio. Pubblicava un settimanale diffusissimo, “Lanciostory”, che aveva fatto conoscere in Italia i fumetti di un paese, l’Argentina, che ha una tradizione fumettistica molto importante e forti legami con l’Italia. Lanciostory produceva anche belle storie italiane. Ho mandato alla rivista alcuni soggetti, cioè le trame dei racconti che proponevo di realizzare. Con mio grande stupore, venni contattato dal direttore del settimanale. Mi chiese di scrivere la sceneggiatura tratta da uno di quei soggetti, un western. Così ho fatto questa specie di copione che poi sarebbe stato realizzato da un disegnatore.

Come avviene la collaborazione con il disegnatore?
Nella sceneggiatura di un fumetto, l’autore del testo descrive la storia inquadratura per inquadratura. In ogni riquadro c’è un istante della storia; la sequenza dei riquadri costruisce l’azione. È un linguaggio per immagini fisse affine alla pittura, all’illustrazione, alla fotografia, ma anche al cinema, al teatro, persino alla danza per il dinamismo che esprime. Io descrivo quello che verrà disegnato: le inquadrature, i rumori, ciò che i personaggi dicono e pensano. Il fumetto è un linguaggio fatto d’immagini e di parole strettamente connesse, è come “leggere” un film o “vedere” un romanzo.

I ragazzi hanno molti mezzi di comunicazione, il fumetto li avvicina alla lettura tradizionale su carta stampata?
Potrebbe essere un modo per riavvicinare i giovani alla lettura. Il linguaggio del fumetto ha caratteristiche ben precise, questa connessione simultanea fra parola e immagine è un procedimento molto complesso perché fa lavorare insieme due funzioni cerebrali ben distinte, quella che ci permette di decodificare razionalmente le parole e quella che ci fa apprezzare intuitivamente le immagini. Insomma, le dinamiche di lettura di un fumetto non sono semplici e vanno imparate fin da giovani. Anzi, da bambini, quando il cervello è più ricettivo e dinamico.

Luigi Mignacco
Luigi Mignacco (fonte: http://dimeweb.blogspot.it)

Nei fumetti c’è arte, colore, emozione, movimento, parole, racconto: i ragazzi sono attratti?
Il linguaggio del fumetto non è quello della televisione e del cinema, in cui si è spettatori passivi. Nel fumetto la storia è scritta: si legge il testo, ma si “legge” anche l’immagine. C’è stata un’epoca in cui il fumetto era considerato surrogato alla letteratura, era visto con pregiudizio: alla fine degli anni ’40 si temeva che i ragazzi venissero distratti dalla letteratura per colpa di quelli che allora si chiamavano giornalini ed erano molto popolari. Ma anche il teatro, in secoli non lontani dell’era cristiana, era guardato con sospetto. Dobbiamo ricordare quando gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata?

Com’è il mercato editoriale dei fumetti?
Fino a qualche decennio fa i fumetti vendevano tantissimo, adesso un po’ meno. Internet ora fa concorrenza: ha un linguaggio affine a quello del fumetto perché ci sono immagini e parole, e in più c’è l’interattività.

Quali affinità hanno l’Argentina e l’Italia?
Dal punto di vista della produzione fumettistica, molte. Fra i numerosi immigrati italiani in questo bellissimo paese, dopo la seconda guerra mondiale arrivarono anche molti scrittori e disegnatori di fumetti, che oltreoceano trovavano editori disposti a pubblicarli. Non credo che ci fossero solo motivazioni economiche, legate alla ricostruzione del dopoguerra in Italia e al benessere di cui godeva il Sudamerica che non aveva conosciuto gli orrori del conflitto mondiale. Il fatto è che alcuni autori in Italia non erano capiti perché troppo moderni, mentre le loro storie tradotte in Argentina avevano avuto grande successo. Uno di loro era il giovane Hugo Pratt, che in Sudamerica diventò una star già negli anni ’50. Ma anche tanti altri. Il fatto è che fra Italia e Argentina ci sono radici culturali comuni e una grande affinità.

Adesso come sono i rapporti tra Italia e Argentina?
Sempre molto fecondi. A partire dagli anni ’70 avvenne il fenomeno contrario: autori importantissimi dall’Argentina vennero in Italia e in Europa a lavorare, spinti da crisi economiche e politiche.

Quali altri fumetti hai scritto?
Ai miei esordi ho scritto storie per “Topolino”, e fu una grande emozione: ho avuto la possibilità di lavorare con i personaggi che avevo letto fin da piccolo. Gli eroi Disney sono paragonabili alle maschere della commedia dell’arte, ci sono dei caratteri molto ben stabiliti, da cui non si esce e con cui si possono costruire infinite storie. E poi, prima di iniziare a collaborare con Sergio Bonelli Editore, ho scritto sceneggiature per “Il Giornalino”, per “L’Intrepido” e per alcune riviste di fumetti d’autore: per “Orient Express” ho ideato Il Detective Senza Nome, un noir disegnato da Massimo Rotundo; per “Comic Art” ho creato il fantasy Pam e Peter, con Sergio Zaniboni; per “L’Eternauta” il personaggio di Corsaro, visualizzato da Attilio Micheluzzi.

I fumetti sono più per ragazzi o per bambini?
Il linguaggio del fumetto è universale e ci sono fumetti per tutte le età. Quelli che ho scritto e scrivo adesso, come Mister No, Dylan Dog, Zagor, Dampyr, Martin Mystère, Tex Willer, si rivolgono a un pubblico di adulti o di adolescenti. Ma è importante che ci siano pubblicazioni accessibili ai bambini, come “Topolino” o “Il Giornalino”. Oggi molti fumetti vanno in libreria, i lettori sono per la maggioranza adulti, il “Corriere della Sera” sta pubblicando una collana di graphic journalism, opere attraverso cui gli autori raccontano storie di attualità, con grande realismo e libertà stilistica. Autentici romanzi a fumetti, o graphic novels, come Persepolis, di Marjane Satrapi, che racconta la rivoluzione khomenista in Iran con lo sguardo di una bambina che poi è l’autrice stessa, oppure Maus di Art Spiegelman, che è una testimonianza importante su ciò che è accaduto nei campi di sterminio nazisti: l’autore ha raccontato l’esperienza di suo padre, sopravvissuto ad Auschwitz, e l’ha illustrata attraverso il vecchio espediente degli animali antropomorfi; in questo modo l’ha universalizzata, ne ha aumentato la carica drammatica.

Le case editrici negano il romanzo; lo scrittore non riesce più a esser pubblicato. Il fumetto secondo te può essere una risposta alla crisi?
Mah, non so, mi sembra che il fumetto adesso sia in crisi quanto il romanzo! Ma bisogna dire che di “crisi del romanzo” si parla da un secolo, e che il Novecento ci ha dato numerosi capolavori. E per quanto riguarda il fumetto, io di crisi ne sento parlare dai primi anni ’80, quando ho cominciato a fare questo lavoro. Penso che la miglior risposta alla crisi sia l’impegno nella qualità.

Come è lavorare per la casa editrice di Sergio Bonelli?
Io lo considero un onore e una responsabilità. Sergio Bonelli è stato una grande figura dell’editoria milanese e italiana, non solo nel campo dei fumetti: un editore autentico e puro, che credeva nella qualità del lavoro e nel rapporto con i lettori. Uno che non ha mai inserito pagine pubblicitarie nei suoi periodici, mantenendoli in edicola solo con le vendite. Prima di essere un collaboratore della casa editrice, io sono stato e sono un lettore di Tex Willer, Zagor, Mister No, Martin Mystère eccetera. Quando bussai alla porta della redazione in via Buonarroti – e quella volta ricordo che fu Sergio Bonelli in persona ad aprirmi! – non potevo immaginare che sarei diventato sceneggiatore di Mister No, uno dei personaggi creati da lui. Per Sergio l’azienda era davvero una famiglia, perché è nato e cresciuto nella tradizione del fumetto. Suo padre, Gian Luigi, aveva inventato il linguaggio del fumetto d’avventura italiano e creato Tex Willer, sua madre ne era diventata l’editore, cosa a quell’epoca abbastanza inconsueta per una donna. Sergio assunse quell’incarico quando aveva meno di trent’anni. Oltre a Tex Willer, enorme fenomeno editoriale, pubblicò personaggi suoi (Zagor, Mister No) e creati da altri, come Dylan Dog, Nathan Never, Julia, Dampyr, ecc. Adesso che Sergio non c’è più, il testimone è stato raccolto da suo figlio Davide, che prosegue degnamente una grande avventura editoriale intrapresa da oltre sessant’anni.

La Bonelli ha grande cura dell’editing?
La casa editrice Bonelli pubblica esclusivamente fumetti seguendoli in modo accurato e professionale in ogni fase della realizzazione: soggetto, sceneggiatura, disegni e lettering (il momento in cui i dialoghi scritti dallo sceneggiatore vengono trascritti materialmente nei fumetti). In tutti questi passaggi un redattore legge e supervisiona il lavoro. Quando la storia è finita, scritta e disegnata, due o tre persone della redazione la rileggono ulteriormente per gli ultimi controlli, ma anche per verificare l’effetto sul lettore. Sono prodotti popolari, di facile lettura, ma estremamente accurati: come film o romanzi d’autore.
A partire dal dopoguerra la Bonelli ha dato molti eroi all’immaginario degli italiani, personaggi mitici con cui i lettori si identificano. Tex Willer è l’archetipo dell’eroe, con il suo senso della giustizia e della morale, con il suo saper risolvere grandi problemi, rispecchia anche la visione del mondo di un paese all’uscita della guerra; il tutto proiettato in una dimensione avventurosa universale, senza tempo; per questo continua ad avere successo, nell’immaginario del pubblico ha avuto e ha tuttora un’importanza incredibile. A partire dagli anni ’80, Dylan Dog ha raccontato le incertezze e le paure dei lettori, ma anche il coraggio di chi sa guardare i propri incubi. Poi ci sono altri personaggi, solo apparentemente minori: Zagor, nato negli anni ’60, incarna la vitalità, l’ottimismo e l’amore per l’avventura. Martin Mystère è stato creato negli anni ’80 e rappresenta la curiosità per la cultura, la maturazione dell’eroe che cerca l’avventura nei misteri della storia. E tanti altri personaggi bonelliani, diversi fra loro, nati per intrattenere i lettori suscitando emozioni differenti. Questi eroi hanno una loro universalità, che li ha fatti diventare autentici “miti d’oggi”. La Bonelli è un modello di casa editrice e in qualità di collaboratore posso testimoniare quanto sia difficile presentare e pubblicare storie. Sergio Bonelli ha costruito questa realtà editoriale efficace ed efficiente. Lui non c’è più, ma il progetto nato dalla sua passione e dal suo intuito continua sulla pista che lui ha tracciato: la serietà del lavoro e il legame con i lettori. La sua figura di milanese e di editore costituisce una vicenda straordinaria ed esemplare.

Luigi Mignacco
Luigi Mignacco (fonte: www.sergiobonelli.it)

Collabori con un solo disegnatore?
Per poter andare in edicola ogni mese un solo disegnatore non basta, realizzare una storia di quasi cento pagine richiede almeno tre o quattro mesi. Ogni personaggio ha dieci/quindici disegnatori e diversi sceneggiatori: è un lavoro di squadra, ma anche d’autore.

Puoi scegliere tu il disegnatore?
Io propongo una storia, che viene affidata a un disegnatore: posso suggerire il nome, ma spesso la scelta dipende da esigenze redazionali o anche dal volere del disegnatore che preferisce un soggetto, un’ambientazione, certi personaggi. Comunque, i nostri disegnatori sono tutti bravi.

Ti è mai capitato di restare deluso dai disegni?
L’interpretazione che viene data dal disegnatore spesso è entusiasmante: è bello immaginare una scena e vederla realizzata. In qualche caso può capitare che il risultato non sia come lo immaginavo e che io chieda qualche modifica, ma non succede spesso. Il disegnatore ha una sua libertà creativa, io do suggerimenti e materiale documentario, ma poi accetto il risultato. A proposito di documentazione, in alcuni casi fornisco autentiche “montagne” di materiale: per la collana “Le Storie” – che ogni mese pubblica un lungo racconto in epoche e luoghi diversi, accuratamente ricostruiti – ho scritto un’avventura pugilistica che si svolge durante tutta la Seconda Guerra Mondiale e una rievocazione della battaglia di Balaklava, in entrambi i casi ho “sepolto” i disegnatori con foto, illustrazioni, armi, costumi ecc. Il risultato mi sembra magnifico. Le mie storie le vedrete in edicola l’anno prossimo, ma anche quelle che escono adesso, realizzate da altri autori, sono molto belle!

Nei tuoi fumetti la tua infanzia prosegue?
Certo! Il fumetto ci mette in contatto con il ragazzo che è dentro di noi. Pur raccontando storie anche drammatiche, storie “adulte”, leggendo un fumetto si risvegliano l’immaginazione e la fantasia che avevamo in abbondanza, da bambini. E infatti, persone anche insospettabili, quando scoprono che scrivo fumetti ricordano immediatamente quelli che leggevano quando erano piccoli. Io credo che il fumetto sia un linguaggio adulto e adatto a raccontare la complessità, ma che abbia una vitalità “infantile”, nel senso che ci ricollega alla fantasia e alla grande intelligenza dell’infanzia. Non dimentichiamo che il bambino, paradossalmente, è più “intelligente” dell’adulto: impara più cose, è più aperto mentalmente.

Ci sono anche donne che scrivono fumetti?
Ce ne sono e sono bravissime, anche se numericamente sono un po’ meno. La qualità compensa la quantità.

I fumetti scritti dagli uomini sono più violenti?
Non credo. E comunque, non darei troppa importanza alla violenza nella fiction. La violenza, i conflitti sono dentro di noi. Nel fumetto, come nel cinema o nel teatro, è fondamentale l’azione: e allora, quello che appare “violenza” è un modo paradossale di raccontare, di esprimere certi concetti. Ha un valore simbolico, non è un consiglio pratico. Infatti chi nella realtà prova a comportarsi come certi eroi del fumetto, del cinema d’azione o dei videogiochi, di solito va incontro a cocenti delusioni o a brutte figure.

Cosa pensi dei film tratti dai fumetti?
Lo sfruttamento dei fumetti nel cinema è un fenomeno soprattutto americano, spinto da motivazioni commerciali pienamente comprensibili. Prendiamo il successo dei film di supereroi: Hollywood ha bisogno di programmare i propri investimenti, e la generazione che ha letto i comics negli anni ’60 ora va al cinema assieme ai figli per vedere le storie dei vari Iron Man, Spider Man, Superman. Ognuno ha il suo personaggio del cuore, un fumetto che leggeva da ragazzo. La stessa cosa non funziona da noi, dove gli spettatori non sono soddisfatti delle versioni cinematografiche dei personaggi più amati, come Tex, Dylan Dog o Asterix. Al di là dei giudizi di merito sui film, dobbiamo anche pensare che la storia della cultura europea è completamente diversa da quella americana. La nostra cultura si basa sulla distinzione fra i generi e le forme di espressione, a partire da Aristotele. La cultura americana nasce con la contaminazione fra i generi e con l’interscambio fra le forme di comunicazione.

I fumetti che scrivi tu sono letti anche in America?
I fumetti Bonelli hanno una diffusione abbastanza limitata negli Stati Uniti, ma sono vendutissimi per esempio in Brasile: ho avuto il piacere di leggere mie storie di Zagor in portoghese.

Che differenze ci sono tra i fumetti europei e quelli americani?
Sui due lati dell’oceano ci sono tradizioni culturali differenti, anche se in apparenza molto simili. Questo vale anche per il fumetto. Ci sono scambi molto fecondi, come abbiamo visto nel rapporto fra Italia e Argentina, ma ci sono anche differenze sostanziali che spesso non sono evidenti. Per tornare al discorso di prima, anche nel rapporto tra fumetto e cinema si vede questa differenza fra Europa e Stati Uniti d’America. Le faccio un esempio: Tarzan è nato nel 1912 come serie di romanzi pubblicati a puntate sulle riviste, e poi raccolti in volumi; pochi anni dopo, sono stati prodotti lungometraggi muti, trasmissioni alla radio e film sonori; nel 1929 è arrivato il fumetto, uno dei primi comics a sviluppare uno stile realistico-avventuroso e non umoristico. Il personaggio ha attraversato con disinvoltura i diversi mezzi di comunicazione; lettori e spettatori lo hanno accettato nelle varie forme di comunicazione. Lo stesso è successo con altri personaggi passati dal cinema alla carta stampata, come Topolino, o viceversa nati nei fumetti per poi passare al cinema, alla radio, in televisione. Gli americani hanno inventato moltissimi personaggi multimediali.
In Europa, invece, questa cosa viene spesso accolta con diffidenza. Nel caso dei fumetti, quasi sempre i lettori sono delusi dalle versione in carne ed ossa dei loro eroi di carta. Secondo me non dipende unicamente dalla qualità dei film: noi abbiamo una cultura dello specifico, per cui teatro, cinema, letteratura, ecc sono ben distinti. Un romanzo nasce per la parola, un copione teatrale per la scena, un fumetto per il disegno, un film per l’immagine. Gli americani invece pensano il personaggio o l’opera in modo trasversale, un romanzo per il cinema, da un bel fumetto come The Walking Dead può nascere una eccellente serie tv, videogiochi, app per cellulari, eccetera. Senza che lo spirito dell’opera venga stravolto!

Ci sono nazioni, il Giappone, ma soprattutto la Cina, che copiano dalla cultura occidentale. Succede anche con i fumetti?
Direi di no. I giapponesi hanno una tradizione di fumetto autonoma e indipendente da quella occidentale, che viene fatta risalire a autori come Hokusai. Una traduzione raffinata e non imitativa. In Italia, a partire dagli anni ’80 c’è stata un’invasione dei fumetti e dei cartoni animati giapponesi. Oggi siamo noi che copiamo loro, molti autori italiani si ispirano ai codici grafici e narrativi dell’estremo oriente.

C’è una domanda che ti vorresti fare?
Mi piacerebbe raccontare una storia della mia valle, una mia piccola esperienza “teatrale”. In un paese della Val Borbera arrivò un giovane parroco che metteva a disposizione una vecchia sala parrocchiale per allestire uno spettacolo. Si formò un gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni; c’ero anch’io. Siamo partiti con l’idea di fare una serie di sketch per uno spettacolino natalizio. In quel tempo – fine anni ’80, sono passati quasi 25 anni! – era in corso una polemica sulla costruzione di un acquedotto che doveva prelevare acqua dal torrente Borbera. Questa disputa mi ha ispirato una storia satirica, in dialetto: una lingua che capisco, ma non parlo. Mi hanno aiutato altri ragazzi della compagnia che invece lo sapevano. Ho immaginato che ci fosse una valle fuori dal mondo abitata da un popolo che parlava una strana lingua: i “Buffi”, che si esprimevano in dialetto. Nella valle arriva un forestiero che porta un sacco misterioso, al cui interno c’è un Tubo. Gli abitanti della valle comprano questo Tubo, e poi scoprono che è lo strumento con cui verrà rubata la loro acqua. È stato come realizzare una specie di fumetto con persone vere. Mi sono reso conto che, almeno per la scena, è più facile scrivere in dialetto che in italiano: il dialetto è una lingua viva, è soltanto parlato ed è più facile e immediato scrivere i dialoghi. Lo spettacolo doveva essere pronto a Natale, ma ci abbiamo lavorato così tanto che l’abbiamo messo in scena solo d’estate, con grande successo. Gli spettatori si sono molto divertiti, più che una polemica contro i politici è stata una celebrazione per l’identità della Valle. Una grande soddisfazione per me e anche per tutti gli amici e le amiche con cui ho vissuto questa avventura!

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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