Intervista al Maestro Filippo Crivelli

20 gennaio 2014

Filippo Crivelli

Filippo Crivelli - Foto di Francesco Maria Colombo

La nostra presidente Anna Crespi ha intervistato il Maestro e amico Filippo “Pippo” Crivelli.

Tu sei un uomo di teatro. Sei una persona creativa?
“Creativo” è una parola inflazionata ed è dunque difficile risponderti. Sono un uomo di teatro e come uomo di teatro posso dire che sono un creativo. Forse lo sono sempre stato.

Anche da bambino?
Direi di sì. Il gioco che mi occupava di più tra i sei-sette anni era un teatrino e su quel piccolo palcoscenico con tante marionette inventavo storie più o meno folli e cretine che, nel lontanissimo ricordo, si potrebbero considerare anche fantasiose. Mi raccontavano poi che all’età di 2 anni, sopra un grande radio-grammofono (che io sapevo misteriosamente usare) mettevo dischi a 78 giri di canzoni o di opere, e li riconoscevo tutti pur non sapendo ancora leggere. Ecco qui l’origine della mia “creatività”.

Quanti fratelli eravate?
Eravamo quattro fratelli. Mia sorella maggiore, architetto, si era laureata al Politecnico di Milano con Piero Portaluppi, mentre mio fratello Gerolamo che aveva studiato pure lui al Politecnico, si era laureato in ingegneria industriale. Mio padre possedeva un’industria tessile a Monza, dove mio fratello, dopo la morte del papà era molto attivo. In seguito, negli anni ’60 abbandonò quell’impegno e decise di affrontare una strada totalmente diversa: direi che il famoso aggettivo “creativo” si adatterebbe meglio a lui, perché divenne negli anni seguenti un pittore stimato. Nell’ambiente era considerato inoltre un poeta, un artigiano raffinato, un grafico, e un originale apprezzato scrittore.
Lascio per ultimo Giacomo che, dopo gli studi di medicina, si laureò con la specializzazione in neurochirurgia, ed è tuttora attivo nel suo campo.

Ma la tua storia?
Tutti noi frequentavamo il liceo Parini. Io, dopo la maturità classica, mi ero iscritto all’Università Statale di Milano nella Facoltà di Lettere Moderne, e parallelamente studiavo il pianoforte, ascoltavo molta musica e leggevo i libri più disparati. Forse per tutti questi interessi mi consideravano l’artista di famiglia.

Hai scritto anche poesie?
Sì, da fanatico dilettante: erano molto in linea con la poesia degli anni Quaranta, copiavo Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese e mi affascinavano i poeti Crepuscolari, soprattutto Sergio Corazzini.
In famiglia invece ipotizzavano che potessi diventare direttore d’orchestra: amavo la musica, studiavo privatamente il pianoforte, frequentavo anche il Conservatorio ed ero persino riuscito a dare alcuni esami di piano, di armonia e composizione con esiti però sinceramente modesti. Quindi c’era poco da ipotizzare, perché la mia testa era troppo e sempre impegnata nel mondo del teatro con un interesse viscerale.

Questa tua passione ti è stata trasmessa dalla famiglia?
Direi di sì. Ho scoperto in tempi successivi che il padre di mia nonna, Giulia Crivelli Bonzanini, era uno scrittore importante nel primo Ottocento: era stato tra i fondatori del Teatro Milanese, aveva scritto alcune commedie molto divertenti in dialetto. tanto che nell’Antologia Meneghina curata da Ferdinando Fontana, edita nel 1900, figura il suo nome – Giacomo Bonzanini – segnalato come figura di spicco tra i molti personaggi milanesi di quel tempo. Sua figlia, cioè mia nonna, era una appassionata spettatrice sia dei teatri di prosa (come il famoso Teatro Manzoni sito in Piazza San Fedele e distrutto dai bombardamenti nel 1942 ) che frequentatrice di sale di musica, ma soprattutto del Teatro alla Scala. Io conservo ancora i libretti delle opere con gli appunti da lei scritti sugli spettacoli che vedeva.

Come ha vissuto la tua famiglia durante la guerra?
Da veri sfollati. Avevamo una grande casa a Lesmo, vicino a Monza, e tutti i parenti si erano riuniti lì: eravamo diventati una grandissima famiglia. Noi fratelli facevamo la spola con Milano perché continuavamo a frequentare il Parini: tutte le mattine alle 7.00 c’era la corriera che ci portava a Monza, dove prendevamo il tram, il famoso “Diretto Monza-Milano” con fermata definitiva a Porta Venezia. Uscendo dalla scuola ricordo ancora che a volte suonavano le sirene d’allarme e si correva nei rifugi sotterranei per l’orrore e il terrore dei bombardamenti nel centro della città.

Gli uomini della famiglia erano partiti per la guerra?
Mio fratello più grande era militare, io ero ancora ragazzo e nella grande casa le donne erano decisamente in maggior numero.

Dopo la guerra tutta la tua famiglia è tornata a Milano?
Abbiamo avuto un periodo di assestamento, perché la nostra casa di via Vitali era stata sinistrata. Ma nel 1946 eravamo di nuovo tutti riuniti a Milano.

E l’università?
In realtà l’università non l’ho mai portata a termine. La storia è un po’ lunga.
Quando avevo 12/13 anni avevo chiesto come regalo di compleanno la Storia del Teatro Drammatico di Silvio d’Amico. La conoscevo a memoria per il fatto che negli anni dello sfollamento avevo dedicato la mia lettura soprattutto a quei quattro volumi, con il radiogrammofono sempre acceso però ad ascoltare le sinfonie di Beethoven e le grandi arie d’opera. Ero cresciuto, insomma, con una fortissima passione per la musica classica, per la lirica e per il Teatro, in una parola io ero semplicemente maniaco di ogni genere di spettacolo. Ecco allora che durante gli anni
dell’università con un gruppo di amici ebbi l’idea presuntuosa di sperimentarmi con un piccolo spettacolo, progettato da me.

Quale tipo di spettacolo?
Racchiudeva già quelle che sono poi diventate le mie “manie”, cioè gli spettacoli compositi. Si intitolava “Dieci scene d’amore”, perché avevo estrapolato da testi classici di prosa italiani e stranieri brevi scene d’amore di diverso carattere. Scene di tragedia, scene comiche, sentimentali, di atmosfera.

Erano come piccoli sketches?
Precisamente. Una scena, ad esempio, era tratta dalla Lisistrata di Aristofane ed era una scena molto comica, poi, ricordando così alla rinfusa qualche altro autore, avevo inserito Maeterlinck con “Pelleas e Melisande”, Anouilh con “Romeo e Jeannette”, Garcia Lorca con “Nozze di Sangue” e addirittura, per l’Italia, Michelangelo Buonarroti il Giovane, autore de “La Tancia”. La interpretava una giovanissima Eliana de Sabata, che studiava per affrontare la maturità classica. Eravamo molto amici, suonava benino la chitarra e sapeva anche cantare. Così la feci debuttare in questa mia prima avventura da giovane ed incosciente, ma fanatico appassionato di teatro. Altri amici, alcuni dei quali in seguito divennero veri attori di professione, ancora adesso, incontrandomi in qualche teatro, mi ricordano quella recita!

Dove lo avete messo in scena? E quando?
Andiamo indietro negli anni: era il 1953! Dunque, prima abbiamo debuttato nella sala amatoriale di un dopolavoro con la certezza che quell’esperienza non si sarebbe più ripetuta. Ma a quell’unica recita era presente una signora “bene” alla ricerca, per una serata di beneficenza da farsi al Piccolo Teatro di via Rovello, di un tipo di spettacolo diverso. Lei si entusiasmò di quell’insolita recita e ci propose di ripeterla per la serata benefica del Piccolo.

Cosa è successo dopo lo spettacolo che hai messo in scena al Piccolo?
Qui comincia davvero la storia mia. Il teatro era più che esaurito e nel pubblico era presente una mia carissima amica. Carla Marzoli possedeva una meravigliosa libreria di libri antichi e preziosissimi, “La Bibliofila” in via Manzoni, frequentata da raffinatissimi collezionisti di libri antichi e da intellettuali d’allora. Dopo il mio spettacolino (che aveva avuto un successo imprevisto) Carla mi disse che dovevo decidermi ad affrontare un palcoscenico vero. «Basta con l’Università, basta con il Conservatorio e il piano, un po’ di coraggio, buttati nel Teatro! » Parlai in casa dei consigli che mi venivano dati e del mio quasi inflessibile desiderio di interrompere temporaneamente gli studi. Loro, pieni di dubbi, accettarono le mie decisioni soprattutto perché Carla Marzoli, amicissima di Tatiana Pavlova, mi aveva prospettato un’occupazione quasi immediata, un’occasione eccezionale: era in grado di presentarmi alla grande regista garantendole la mia buona conoscenza musicale e teatrale.

Ma perché proprio la Pavlova?
Perché cercava un assistente per la regia di un’opera al Teatro alla Scala, e Carla Marzoli propose appunto me. Così io che fin da bambino andavo alla Scala come spettatore, entrai nel grande palcoscenico del teatro, dalla porta principale! Era l’inaugurazione della stagione lirica 1953-1954,
LA WALLY di Alfredo Catalani, Direttore d’Orchestra Carlo Maria Giulini. Ti dico il cast: Renata Tebaldi, Mario del Monaco, Gian Giacomo Guelfi e debuttante Renata Scotto; scene e costumi di Nicola Benois, regia di Tatiana Pavlova. E io ero il suo assistente!

Sei stato un privilegiato!
Privilegiatissimo. Sono stato introdotto nel posto giusto, e mentre lavoravo in palcoscenico vedevo in platea Victor De Sabata con Arturo Toscanini, Wally Toscanini con Orio Vergani, e tanti altri personaggi attenti a seguire le prove. Cara Anna, io ho colto quella straordinaria occasione con la possibilità di entrare, alla mia giovane età, nel giro musicale di quegli anni, ora considerato giustamente leggendario.

Frequentavi casa Toscanini?
Sì, ero amico di un gruppo di giovani tutti appartenenti al mondo musicale di allora, da Eliana figlia di Victor De Sabata a Madina Ricordi, da Nicoletta Braibanti nipote di Ildebrando Pizzetti a Emanuela figlia di Wally Toscanini. E la casa del Maestro era aperta a tanti incontri, soprattutto per noi giovani. E Wally era sempre presente tra noi.

Com’era Wally Toscanini?
Una persona di grande cuore e generosità. Sempre ospitale, riceveva tutti, amici e non amici, con una allegria, entusiasmo, sorriso, che avevano reso la casa di via Durini un centro molto ambito. Con lei ho avuto un bellissimo rapporto di vera amicizia: era una donna autentica, naturale ed estremamente semplice.

Tutti i grandi sono semplici.
Io sono una persona semplice, di conseguenza sono grande.

Tutti questi personaggi che avevi la fortuna di incontrare ti hanno rinforzato, ti hanno dato molto, oppure tenevi separata l’amicizia dal lavoro?
Fa parte del mio carattere: ho sempre avuto, grazie alla mia educazione, un grande rispetto per tutti. Io mi sentivo sempre un gradino più in basso. È un errore che commetto ancora adesso che ho più di 80 anni: ritenere tutti più grandi di me.

Quanti anni hai?
Ne ho 85. Da anni tutti mi chiamano Maestro, ma io non mi sento Maestro.
Allora io sono senza età.

Dopo Wally alla Scala hai continuato a lavorare con la Pavlova?
Nel 1953/54 per l’intera stagione sono stato con Tatiana Pavlova. Dietro la sua aura di grande regista da tutti temuta, mi trattava con grande rispetto, dandomi sempre del Lei: e mi ha dato subito fiducia, affidandomi impegni di responsabilità come affrontare gli artisti del coro e soprattutto lavorare con i solisti. Ho avuto la fortuna di incontrare grazie a lei grandi direttori d’orchestra e grandi cantanti.

Avete lavorato assieme solo alla Scala?
Mi portò con sé anche a Firenze al Teatro Comunale, per mettere in scena Mefistofele di Boito. La Pavlova chiamò per il nuovo allestimento un giovanissimo artista, che era quasi alle prime armi nel mondo della lirica, era Emanuele Luzzati. Un cast incredibile con la presenza di Magda Olivero e Tullio Serafin direttore d’orchestra.

Ma il tuo debutto come “Filippo Crivelli”?
E’ stato nel 1958, dopo aver fatto cinque anni di gavetta con Pavlova, Zeffirelli (incontrato alla Scala in quei primi anni e in seguito suo assistente per moltissimi spettacoli), e con Visconti col quale ho avuto un’esperienza indimenticabile nel teatro di prosa. Dopo cinque anni con loro ero abbastanza preparato per affrontare un debutto. Teatro Carlo Felice di Genova, La Bohème di Puccini, nuovo allestimento di Nicola Benois.

Mi parli del Teatro Regio di Parma?
Nel 1963 per il 150enario verdiano ho allestito la mia prima Luisa Miller, Un giorno di Regno, e Macbeth con scene e costumi appositamente creati da Renato Guttuso.

Hai collaborato molto con il Teatro Regio?
Nel ’65 feci Simone Boccanegra con il debutto di un grande baritono inglese: si trattava di un artista per me indimenticabile Peter Glossop. Fu il mio primo Simone, al quale ne seguirono tanti altri: Piero Cappuccilli, Mario Zanasi, Tito Gobbi, Leo Nucci, Roberto Frontali.

Hai avuto l’occasione di fare incontri importanti?
Sono entrato in contatto con personaggi meravigliosi; ho imparato molto da loro, osservandoli agire e lavorare con grande professionalità.
Ti posso fare una sequela di artisti che ho conosciuto…

Raccontami di un cantante con cui hai lavorato.
Quale? Potrei parlarti di Alfredo Kraus, di Maria Callas, di Pippo Di Stefano, non so da che parte potrei cominciare, sono tutti ricordi bellissimi. Come quando la Pavlova, durante le prove alla Scala di Evgenij Onegin di Tchaikovsky, non riusciva ad andare d’accordo con Renata Tebaldi, non si era creato un dialogo tenero. Pavlova chiese allora a me di curare la scena della Lettera di Tatjana al posto suo.

Era difficile lavorare con Renata Tebaldi?
Era difficile perché la Pavlova pretendeva cose che la Tebaldi non poteva fare: ad esempio voleva che cantasse sdraiata sul letto, come una bambina innamorata. Io feci da mediatore, e questa è stata una virtù che tutti mi apprezzano: cercare di convincere con la persuasione e la cortesia un artista ad affrontare cose nuove o mai sperimentate. Come regista mi sono sempre schierato dalla parte dei cantanti, perché ritengo la professione del canto la più difficile. Quella volta Renata Tebaldi scrisse la lettera non sdraiata sul letto, ma quasi, appoggiandosi a tanti cuscini che le avevo messo intorno per sostenerla più sicuramente.

Hai conosciuto Visconti?
Sono stato suo assistente nel teatro di prosa, Contessina Giulia di Strindberg con Lilla Brignone e Massimo Girotti.

È stato un maestro?
Straordinario! Si imponeva, ma con grande garbo e aveva sempre le idee precise su come ideare gli spettacoli. Grandissimo maestro!

Hai lavorato anche con Giorgio Strehler e Paolo Grassi?
Con Strehler ho collaborato poco, l’ho conosciuto tramite Valentina Cortese e l’ho seguito in alcune apparizioni televisive in programmi da me curati.
Con Paolo Grassi ho lavorato al Piccolo Teatro in alcuni spettacoli compositi.
Per lui ho provato e provo ancora ammirazione e adorazione: un uomo che conosceva tutto, era al corrente di tutto, si poteva parlare di tutto perché lui capiva tutti i problemi contingenti e no. Nel 1976 mi chiamò alla Scala per una nuova Luisa Miller, direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni, cantanti Montserrat Caballé e Luciano Pavarotti.

Parlami della Piccola Scala
Il mio debutto alla Piccola Scala è stato nel 1971 con la Finta Giardiniera di Mozart. Sovrintendente d’allora era Antonio Ghiringhelli, direttore artistico della Piccola Scala Riccardo Allorto. Dopo Mozart misi in scena The Beggar’s Opera di Britten (che per diversi anni è stata in tournée nei principali teatri italiani). Ma ho anche curato regie di opere di autori contemporanei, da Gino Negri a Alberto Savinio, da Alfredo Casella a Arnold Schönberg a Salvatore Sciarrino.

Ti è dispiaciuto quando è stata chiusa?
Enormemente. Era uno spazio indispensabile per un certo tipo di opere: per tutto il Settecento, per l’opera barocca e le opere contemporanee era perfetto, il palcoscenico era a misura musicale indovinatissima e tutti i cartelloni erano di grandissimo prestigio culturale.

E il Piccolo in via Rovello?
Altro luogo a cui sono molto legato per ragioni di lavoro e soprattutto di memoria. Ho seguito l’attività del Piccolo sin dal tempo dell’apertura, 1947. Indimenticabile fu il primo incontro con Milly, che era Jenny delle Spelonche nell’irripetibile prima edizione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill, regia di Giorgio Strehler.
Due anni fa ho scelto di presentare in via Rovello un doppio cd che raccoglieva tutto il lavoro di Milly nei suoi recital da me curati, compreso il concerto voluto da Paolo Grassi alla Piccola Scala nel 1975.

Vengono a mancare gli spazi per la creatività?
Tutti questi spazi si sono persi perché nessuno più li salvaguarda. L’esempio più scandaloso è la scomparsa del Teatro Gerolamo, che dal 1953 al 1980 circa fu una delle anime più smaglianti, interessanti, preziose di ogni forma di teatro classico e d’avanguardia.

Che cosa mi dici del Ballo Excelsior?
Il Ballo Excelsior è sempre stato una delle mie passioni. Al Teatro Gerolamo negli anni ’50 era attiva la compagnia di marionette Colla, ed io andavo spesso a vedere i loro spettacoli. Il Ballo da loro realizzato con le marionette mi è sempre rimasto nel cuore; anche mia nonna me ne parlava sempre, sapevo tutto di Excelsior: avevo recuperato lo spartito per pianoforte, avevo fatto ricerche al museo della Scala e altrove.

Quando l’hai messo in scena?
La storia è curiosa: Remigio Paone, Sovrintendente al Maggio Musicale Fiorentino nel 1966, cioè l’anno dell’alluvione, si trovava con il suo teatro totalmente disastrato e all’inizio della primavera voleva iniziare la stagione ugualmente. Ideò un bellissimo cartellone, inserendo anche il Ballo Excelsior, impresa avventurosa e difficile. Ne parlò con Paolo Grassi e Carletto Colombo i quali gli suggerirono un nome che poteva aiutarlo e quel nome era il mio. Potrei scrivere un libro sulla storia del Ballo Excelsior! Diventò un successo anche perché nella piena collaborazione di Giulio Coltellacci (scene e costumi) e di Ugo Dell’Ara (sapientissimo coreografo) si creò una ricostruzione moderna ma col sapore del passato che conquistò tutti i pubblici. La sua musica era stata rielaborata in modo geniale da Fiorenzo Carpi. Questo spettacolo ha avuto più di 200 repliche dal Teatro dell’Opera di Roma al Regio di Torino, dal Carlo Felice di Genova all’Arena di Verona, dal San Carlo di Napoli all’Opéra di Parigi Palais Garnier, per non parlare della Scala dove ancora l’anno scorso si è ripetuto un successo grandissimo.

Tutte le tue esperienze nascono dagli incontri.
Tutta la mia vita è stata una serie di incroci e incontri fortunati con persone che mi hanno dato fiducia. Ho sempre affrontato tutto con la mentalità giovanile di incoscienza, ma con grande impegno ed entusiasmo, credendoci. Le mie esperienze di studio e di lavoro mi hanno aiutato.

Oggi tu sei una fonte di esperienze; ma ti è rimasta ancora l’incoscienza?
Quella ci vuole sempre.
Bisogna tenerla a freno, si deve essere sicuri di quello che si propone. Io ad esempio sono contrario alle nuove letture dell’Opera Lirica, cioè il voler rinnovare per rendere tutto commestibile alle nuove generazioni. I giovani hanno bisogno di una base: e la vera base è il passato, la memoria, non il futuro.

Come trovi i giovani di oggi? Sono viziati?
Sono viziati dal progresso. Manca loro la base: la loro cultura si forma attraverso internet, Facebook, Twitter, Wikipedia, insomma è superficiale. E purtroppo il mondo della televisione non aiuta, se non con pochissimi programmi di alta qualità.

I giovani avrebbero tante possibilità, se sapessero usare questi mezzi con intelligenza.
I mezzi sono utilissimi, ma è indispensabile approfondire.
Ti faccio l’esempio del Ballo in maschera di Michieletto, che ha suscitato grandi scandali: è uno spettacolo brutto. Michieletto viene dalla scuola del Piccolo Teatro. Purtroppo ha avuto un’idea che però non ha approfondito, soprattutto per avere trascurato l’assoluta importanza della musica. Tutti ignorano che il melodramma è prima di tutto musica. Il libretto non può essere il fiore all’occhiello per i giovani registi che tendono a stravolgere il capolavoro del vero autore, cioè il compositore d’opera.
Ho amato il Lohengrin della Scala perché da un’idea audacissima del regista Claus Guth, seguita meravigliosamente dagli artisti, è nato uno spettacolo di avanguardia, trasgressivo, ma di grandissimo spessore, dove musica e testo si univano in modo esemplare.
Il Ballo in maschera, invece, era tutto nella superficie; così come lo è stato La scala di seta: divertente, spiritosa, grossolana, in poche parole televisiva.

Come sono i direttori d’orchestra italiani?
Tanti italiani validissimi si lasciano però sedurre dalle novità, o forse nessuno ha il coraggio di dire no. Lo hanno fatto Gavazzeni, Abbado, Nino Sanzogno, Vittorio Gui, Riccardo Muti, Bruno Bartoletti e tanti altri. Per esempio la mia Luisa Miller scaligera avvenne con un trasgressivo spostamento d’epoca, concordato con Gianandrea Gavazzeni e lo scenografo Pierluigi Samaritani. Ma facemmo riunioni e discussioni a non finire.
Con Daniele Gatti ho collaborato durante il laboratorio lirico di Alessandria, dove facemmo insieme una bellissima Giovanna d’arco verdiana.
Col bravissimo Fabio Luisi ricordo La Favorita di Donizetti fatta al Festival di Martina Franca in anni lontani. Rodolfo Celletti aveva molta fiducia in Luisi ed aveva ragione: ora è uno dei direttori italiani richiesto ed ammirato in tutto il mondo.
Con Riccardo Chailly non ho avuto la fortuna di collaborare, ma sono stato strettissimo amico di suo padre Luciano Chailly, compositore, autore di opere che io ho diretto come regista ed ora suo figlio è un altro grande direttore italiano di livello internazionale.

Tu sei come un filo rosso.
Sono uno dei pochi che ha una grande memoria e ha avuto la fortuna di vivere stagioni meravigliose di musica e di prosa e di cinema.

Sono stata molto colpita dalla prima cosa che mi hai detto: nella tua prima esperienza hai messo assieme tutti i più grandi scrittori stranieri.
Quelli che amavo di più nella prima gioventù. E avevo con me attori e amici che la pensavano come me.

Io vedo un filo rosso che ti porta fino ad oggi.
Parlami di Prévert mon ami.
È un’altra storia lunga: ho sempre amato la Francia, le sue canzoni, i suoi cantanti, la Parigi degli Anni Cinquanta, l’esistenzialismo, Saint-Germain-de-Prés. Di conseguenza amavo le poesie, gli scritti di Prévert, e quando ho avuto la possibilità di realizzare un piccolo spettacolo da camera dedicato a lui, ho messo in scena Prévert mon ami con la presenza perfetta del bravissimo giovane attore Mario Cei. Ne è risultato uno spettacolo delicato e prezioso, con un video da me curato.

Ho già notato che sei sempre attratto dalla memoria dei tempi lontani.
Hai perfettamente ragione. Più passa il tempo, più amo ricordare chi ha vissuto prima di noi. Non dimentico che il padre di mia mamma era editore, un editore molto noto nel primissimo Novecento, Ettore Baldini, e mi sembrava giusto portare alla luce della memoria un personaggio scomparso da tanto tempo. Nella nostra casa stava appeso su una parete molto vasta un bellissimo ritratto ad olio fatto da Cesare Tallone a mio nonno negli Anni ’10, esposto poi alla Permanente nel 1912. Quadro decisamente “storico”.

Hai donato quel quadro alla Pinacoteca di Brera?
A febbraio, in occasione della donazione, abbiamo fatto una mostra dell’attività della casa editrice alla Braidense, ed ho inoltre curato con la Cineteca Italiana e Matteo Pavesi una rassegna di film ricavati dai volumi pubblicati da Baldini&Castoldi: da Malombra a Piccolo mondo antico, da Noi vivi a Incompreso, da Giuda l’oscuro a Quo vadis. Mio nonno era stato l’editore di Antonio Fogazzaro nonché il primo a pubblicare best seller come Incompreso, Quo vadis e tanti altri.
Alla Braidense la mostra ottenne un bellissimo successo e il quadro è ormai dalla primavera 2012 nell’ultima sala della Pinacoteca di Brera: seduto nella grande poltrona, mio nonno invita il pubblico ad entrare in libreria, la libreria della Pinacoteca dove l’editore Skira espone tanti bellissimi volumi d’Arte.
Il libro deve continuare a vivere. È la cultura che deve continuare a vivere.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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