Intervista a Maurizio Nichetti

22 settembre 2014

Anna Crespi ha incontrato Maurizio Nichetti, regista, sceneggiatore e attore milanese di grande personalità e straordinario eclettismo, capace di raggiungere il grande pubblico cinematografico dirigendo e interpretando un personaggio deliberatamente muto negli anni settanta esaltati e sovreccitati dai pugni urlanti di Rocky Balboa.

Sei milanese?
Milanese. Ho abitato a Porta Vittoria fino ai miei vent’anni; poi mi sono spostato in zona Melchiorre Gioia. Che è diventata anche la mia zona lavoro: da quelle parti aveva lo studio Bruno Bozzetto, il famoso autore di cartone animati. Ho iniziato a lavorare nel 1970. Sono 44 anni di lavoro!

Come mai Milano e non Roma?
Io sono nato a Milano. In quegli anni ancora non facevo cinema. Mi sono laureato in Architettura al Politecnico. Non avevo mai pensato di fare cinema. Per mantenermi all’università ho iniziato a fare piccoli lavori come attore, scrittore di favole per Topo Gigio e pubblicità… durante gli anni dell’Università ho anche seguito la scuola del Piccolo Teatro.

Con chi hai studiato?
Erano gli anni di Strehler e delle sue regie. Ho fatto scuola di mimo con Angelo Corti e Marise Flach. Eravamo i mimi del Piccolo Teatro e venivamo ingaggiati al Piccolo Teatro sia per gli spettacoli di Strehler sia per gli spettacoli lirici della Piccola Scala.

Quando ti sei scoperto creativo?
Il mio primo ricordo sul palcoscenico è di quando avevo 10 anni. Nella mia famiglia nessuno faceva spettacolo. Da bambino mi divertivo guardando la TV dei ragazzi e come una piccola scimmietta facevo le imitazioni: erano gli anni Cinquanta e imitavo Stanlio e Olio, Ugo Tognazzi… Mio padre, che era un impiegato dello Stato, mi diceva: “Non sai cosa significa andare davvero sul palcoscenico, l’emozione”.

Aveva ragione tuo padre?
Non era un uomo di spettacolo e il mondo dello spettacolo lo spaventava. Un giorno, durante una festa di quartiere, nel cortile della casa di mio nonno, che abitava nello stesso quartiere in cui è cresciuta Carla Fracci, c’era il palco con l’orchestra. A un certo punto il presentatore mi chiama sul palco. Avevo 10 anni, ripeto. Mi ha fatto molta impressione! Quando sono salito, mi hanno chiesto di fare qualche imitazione. Era stato mio padre a organizzare questa cosa, convinto che non avrei mai avuto il coraggio di salire su un palcoscenico! Mentre l’esibizione prima di me si stava concludendo, ho improvvisato nella mia mente una scaletta di imitazioni. È andata bene. Da quel momento salire su palcoscenico mi è piaciuto. Ho frequentato il liceo scientifico e organizzato una compagnia teatrale, ma ho capito subito che era una dimensione molto dilettantesca. Così ho deciso di iscrivermi alla Scuola del Piccolo. Io però contemporaneamente frequentavo anche l’università. Ho fatto la scuola di mimo per due giorni a settimana e facevo le partecipazioni mimiche. Grazie a questo salivo sul palcoscenico con le compagnie del Piccolo.

Cosa ti insegnava la scuola di mimo?
Ho imparato la pantomima, il movimento mimico senza parlato. Questo veniva utilizzato molto sia da Strehler nel suo teatro – per lui era importante il gesto, la componente mimica –, sia alla Piccola Scala dove c’erano piccoli allestimenti. Ho fatto anche un’opera moderna, La misura e il mistero, con la regia di Bettettini. La curiosità è che una delle mime era Miuccia Bianchi, divenuta poi famosa come Miuccia Prada. All’epoca lavorava in teatro, non si era ancora data alla moda!
Alla Piccola Scala abbiamo fatto bellissime esperienze… era un periodo in cui si lavorava. Si lavorava sempre come mimi, come azione scenica.

Si guadagnava abbastanza?
Non era un gran guadagno. Ho cominciato a guadagnare lavorando nella pubblicità: non come attore, ma come sceneggiatore. Grazie a un amico che faceva il modello per le pubblicità, ho cominciato a scrivere sceneggiature per i Caroselli. Ho capito che lo spettacolo che a me piaceva aveva anche una dimensione di preparazione, creatività. A me non piaceva esibirmi, mi piaceva stare “nella” macchina dello spettacolo. Quando ho scoperto la regia, la sceneggiatura, la scenografia… ho capito quale era la mia strada. Anche Architettura l’ho scelta per scenografia. Quando mi sono accorto che c’erano molti lavori dietro alle quinte, mi sono dedicato a quello che si poteva fare a Milano in quegli anni: la pubblicità.

Parlami di un lavoro che ti ha particolarmente coinvolto.
Ho avuto la fortuna di lavorare in uno studio che faceva pubblicità e cartoni animati a livello internazionale, quello di Bruno Bozzetto. Sono stato assunto come sceneggiatore di cartoni animati solo perché ero un appassionato di comiche mute, realizzate con gag visive che si potevano fare con il cartone animato. Nella storia del cinema, tutti gli sceneggiatori che facevano film all’epoca d’oro del muto, con l’avvento del sonoro sono diventati sceneggiatori di cartoni animati. Il mio percorso è stato praticamente lo stesso: da bambino guardavo in TV i comici del muto, ho fatto la scuola di mimo e poi ho sceneggiato cartoni animati. Per 8 anni ho scritto cartoni animati e pubblicità. E in quegli anni abbiamo scritto tutti i lungometraggi del Signor Rossi e Allegro ma non troppo. Eravamo una trentina di persone ed era uno studio molto qualificato e conosciuto in tutto il mondo. È stata una bella scuola. Tutti questi lavori mi sono serviti per debuttare come regista.

Quando hai debuttato nel cinema?
A fine anni Settanta ho avuto l’occasione di scrivere un film. Il mio personaggio era muto; preferivo non parlare, esprimermi con le gag di un cartone animato, ma l’ho realizzato dal vero perché non ero un disegnatore. Insomma, ho realizzato un film dal vero, scritto come un cartone animato, interpretato da uno che non parlava: è nato un film strano, Ratataplan. È stato un film che ha avuto un gran successo non solo perché era originale, ma anche perché arrivava in un momento in cui era vitale la scoperta del comico, del divertimento. Uscivamo da un decennio di politica, di contestazione universitaria. Quando ero in università, era il 1969, non avrei mai potuto dichiarare di voler fare il comico!

Hai lasciato lo studio?
Nel 1979 ho iniziato a fare film miei e sono uscito dallo Studio Bozzetto. Fino agli anni Novanta ho realizzato dieci lungometraggi che avevano come caratteristica di essere film comici, dove il gesto e l’immagine erano più importanti della parola.

Ti senti un po’ un Charlie Chaplin?
No per carità, lui era un vero e proprio genio di un’altra epoca. Io ho solo realizzato film molto personali.

Hai avuto grande successo…
Grande successo e grandi soddisfazioni. Così sono diventato molto esigente con me stesso. Quando uno fa lavori molto personali, legati al proprio personaggio, poi diventa difficile staccarsene, non sempre si vuole cambiare la propria immagine comica. Pensa che la carriera di un comico dura al massimo vent’anni. Buster Keaton, Laurell Hardy, lo stesso Chaplin hanno realizzato i  loro film più famosi in un arco di vent’anni. Comunque ho sempre lavorato, non mi sono mai fermato. Oggi dirigo la Sede milanese del Centro Sperimentale di Cinematografia.

Di cosa si occupa il Centro?
È la Sede lombarda del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, una sede dedicata al cinema di impresa e pubblicità. Mi hanno chiamato sapendo che ho lavorato per tutta la vita tra cinema e pubblicità. Sono convinto che imparare a scrivere una storia in trenta secondi per la pubblicità, a volte, sia più difficile che scrivere un lungometraggio.

Com’è cambiata la pubblicità?
È cambiato il pubblico, i linguaggi, le tecnologie, il modo di distribuire il messaggio pubblicitario. Bisogna studiare in continuazione, rinnovarsi. Una volta il carosello era solo sulla Rai, a una certa ora. Oggi la pubblicità è polverizzata in mille momenti, su media diversi.

Come ti sembra la pubblicità adesso?
Sta vivendo un momento di crisi, come tutto il Paese. Il condizionamento del media televisivo c’è ancora, ma è peggiorato. Si vedono più televendite che spot. Non è un caso che oggi le elezioni europee siano state fatte da tre competitors, tre personaggi che hanno usato il media televisivo per farsi conoscere. Oggi se non passi dalla tv non hai valore. Negli anni Settanta il politico non andava mai in televisione. Comparivano, una due volte all’anno, solo per fare la tribuna elettorale… ogni tre o quattro anni. Il politico si vedeva solo in ambito politico, non era mai spinto in trasmissioni rissose, dove per farsi sentire bisogna urlare più del tuo avversario. Ognuno parlava civilmente cercando di comunicare la propria idea.

E Grillo?
È un amico, un comico, una persona che ha fatto per tutta la sua vita monologhi comici e con lo stesso spirito fa comizi. Solo adesso le sue battute suscitano casi internazionali perché la sua è diventata la battuta di un leader politico. Il leader politico che si esprime come un comico è pericolosissimo. Questo lo abbiamo già visto con Berlusconi. Ma ai nostri giorni se non passi dalla televisione, da una provocazione, da una battuta, da un twitter, non ottieni risultati… Pensa a Bersani e Martinazzoli che erano persone serie, ma non telegenici. Vale per tutti in tutti i paesi: anche Obama come immagine si presenta bene. È un’immagine che “passa” lo schermo.

Hanno carisma?
Hanno un carisma che si autoalimenta con i social network. Basta una riga in Rete e il giorno dopo sei in prima pagina.  La gente è frastornata, subisce il fascino di tutta questa comunicazione e  televisione.

La gente guarda ancora la tv?
La TV è stata sostituita da Internet.  Pensa a una trasmissione come The Voice, vinta da Suor Cristina, che ha avuto 3 milioni di spettatori in TV e più di  50 milioni di visualizzazioni sul web…

Cosa prevedi?
Non riesco a fare previsioni. Credo semplicemente che non si può fare a meno di mostrarsi pubblicamente ignorando questi nuovi linguaggi. Non puoi fare il politico e non saper parlare in tv, essere simpatico, avere un sorriso rassicurante… Il pericolo è che questo apparire diventi più importante dei  contenuti che vuoi trasmettere. Il rischio è che uno sappia parlare in pubblico, sia magari simpatico, ma poi non sia in grado di governare il Paese.  Da vent’anni a questa parte siamo governati da politici che “bucano” lo schermo.

C’è più internet che tv?
Oggi c’è più internet, certamente, ma non cambia il condizionamento: è più sofisticato, così tutti vanno poi nella direzione dell’evento più eclatante, più appariscente.

Io sto rileggendo Guerra e pace. Questa grande opera entra nell’anima delle persone.
Temo che per parlare oggi alle nuove generazioni, si debbano usare linguaggi diversi. Addio alla meritocrazia! Una volta Carla Fracci ballava bene e diventava una stella; Mina cantava e tutti la stavano ad ascoltare. La qualità. Oggi siamo pieni di reality show. La gente vuole vedere sconosciuti che cantano, ballano e recitano come potrebbe fare chiunque. I cantanti di un certo tipo, attori di un certo tipo, sarà difficile riaverli. Ormai da dieci anni a questa parte la tv si è appiattita sui format più popolari. Ha invaso tutto, ti raggiunge anche se tieni la televisione spenta.

A quanto mi dici, la qualità non paga più…
Diciamo che oggi la qualità paga poco. È più importante avere un’immagine pubblica strana, un’aggressività provocatoria, una popolarità mediatica che poi ti permette poi di vendere libri, fare film, intervenire in TV come esperto di… tutto!

E a te cosa succede?
Io sto a casa mia, faccio le mie cose. E la gente mi chiede: “Perché non lavori più?”. Solo perché non mi vedono in tv, in pubblicità. Io sto lavorando più di quelli che vanno in tv.  È proprio così: fortunatamente lavoro sempre, ma dietro le quinte. Esibisco meno la mia faccia!

Come si fa a uscire da dietro le quinte?
Oggi i ragazzi devono passare attraverso i talent show, le giurie televisive, il televoto. Uno su dieci poi riesce a rimanere. Marco Mengoni, che ha vinto Sanremo l’anno scorso, ha vinto un talent show…

Sei contento così?
Ognuno di noi è legato alla sua epoca, al suo modo di lavorare. Oggi anche il mio lavorare nell’ombra mi diverte.

Vai in tv?
Ci andavo quando mi invitavano. Poi da un certo momento in poi in tv sono invitati solo coloro che accettano di litigare, di alzare la voce, di aggredire e gridare per parlare magari di un fatto di cronaca nera. A me non interessa, non voglio essere un tuttologo. Ho le mie idee, ma non  ho bisogno, fortunatamente, di andare in tv a fare comizi.

Tanti non sanno per chi votare.
Questo è il problema. Alla fine poi, si rischia di non scegliere un’idea, ma un personaggio…

Si sceglie sempre il personaggio?
Non a caso i partiti si sono identificati con i personaggi. I meccanismi di presa e simpatia che portano al voto sono tutti uguali e le ideologie sono meno chiare di una volta, gli schieramenti si sono mischiati. Non è più chiaro cosa sia destra e sinistra, e non è, assolutamente, un problema di qualunquismo: oggi il 50% dell’elettorato non va a votare perché non sa chi scegliere. La maggioranza non sa come esprimersi… ma del resto anche una volta era “silenziosa”

C’è chi, in controtendenza, ama la solitudine…
È una naturale reazione a tutto questo mondo del comunicare rumoroso. Ci sono persone che, credono, isolandosi, di trovare più idee, ritrovare un senso. Però più ti isoli, più guardi solo all’interno di te stesso, più diventi una persona che avrà difficoltà poi a parlare con gli altri. Per gli intellettuali che fanno ancora teatro, cinema, letteratura, rimanere attivi nella comunicazione è un obbligo.  Bisogna conoscere le regole che comunicano oggi, altrimenti il pubblico non si raggiunge. Mi rendo conto che quando inizio a sentir parlare di qualcosa che non conosco, devo andare a informarmi, altrimenti non riesco più a scrivere, recitare, comunicare.

Parlami di una tua esperienza negativa…
Più che un’esperienza negativa, direi una sensazione di impotenza. Nel 1990, ho fatto Volere volare. Era la storia tra me, basso, e una donna più alta di me (una bravissima Angela Finocchiaro). Ho scritto una battuta per dire che l’altezza, in amore, non conta niente, e ho citato come esempio Mickey Rooney, un attore che, nonostante fosse basso, si è sposato con sette donne bellissime, tra cui Ava Gardner. Mi hanno subito fatto notare che i ragazzi degli anni Novanta non sapevano chi fossero Mickey Rooney e Ava Gardner. Ho pensato di sostituirli con un esempio italiano, Sofia Loren e Carlo Ponti: Carlo piccolino e Sofia, diva, alta che lo sovrastava. I ragazzi degli anni Novanta non conoscevano neppure loro, mi hanno detto!  Ho chiesto a questo punto a quali personaggi avrei potuto fare riferimento per sottolineare la differenza di altezza in una coppia affiatata: mi hanno suggerito Pippo Baudo e Magalli! Mi sono sentito impotente di fronte a tutto ciò, così ho lasciato nel film la battuta originale con Mickey Rooney e Ava Gardner.  Quei due fanno parte della storia del cinema mondiale, ho pensato, e alla lunga saranno ricordati. Forse tra dieci anni nessuno saprà più chi sono stati Magalli e Baudo… forse anche prima.

Credi che ora le cose siano cambiate?
Dal 1990 a oggi le cose sono peggiorate. C’è un film dedicato a Berlinguer, girato fuori dalle università. Tra i giovani intervistati, pochissimi sapevano chi era questo grande uomo politico. Qualcuno azzardava che fosse un francese… Viviamo in una società che dimentica subito. Una volta si viveva in una società dove Caruso, Joséphine Baker, i grandi artisti vivevano a lungo nella memoria della gente.. Adesso con la tv, devi ogni giorno inventare nuovi espedienti, c’è l’enfatizzazione della superficialità. Non sto colpevolizzando la televisione; l’ho fatta e mi è piaciuto farla… solo che ora è diventata solo una fabbrica di consensi temporanei.

Lavori ancora per tv e pubblicità?
Meno di una volta…

Perché?
Non mi vedo nei panni di un “giurato” o di un “concorrente”.  Rimangono poche altre trasmissioni.  Appartengo a una generazione che ha lavorato con le troupe cinematografiche: con un direttore della fotografia,  un  montatore, un musicista… Oggi l’audiovisivo si realizza digitalmente con il computer.  Al Centro Sperimentale la figura professionale che cerchiamo di formare è quella di un “realizzatore di progetti” che sappia montare, recitare, dirigere, andare a parlare con un cliente; cose che prima facevano dodici persone! Ma oggi non ci sono più le risorse per far lavorare così tanta gente. Devi riuscire a fare tutto da solo. Si è ristretto il mercato, case di produzione che non hanno saputo aggiornare il loro modo di pensare sono gravemente in crisi.

Cosa ne pensi della situazione del Teatro alla Scala?
Mi sono sempre chiesto come mai, negli ultimi anni, un Teatro come la Scala non abbia saputo esprimere una dirigenza italiana? Siamo o non siamo la patria del melodramma? Al di là delle cronache più recenti, e delle conseguenti polemiche sorte, mi sembra che un teatro della tradizione della Scala, meriti una produzione propria di grande prestigio e non possa comprare stagioni intere da altri teatri. È chiaro che tutto ruota attorno a momenti economici difficili, ma vestendosi di produzioni altrui non è che la Scala rischia di perdere la sua centralità culturale?  Lissner aveva lavorato bene, ma io sarò felice quando la Direzione Artistica della Scala tornerà italiana. Comunque se vogliamo che le nuove generazioni non perdano la memoria delle nostre tradizioni, dobbiamo cercare di rimanere uniti, trovare i pregi di ogni periodo storico, di ogni direzione, cercando, tutti insieme, di non sottolineare sempre e solo le criticità, altrimenti è difficile pensare che tutto non sia un un gioco di poteri forti, anche lontani dal nostro teatro più rappresentativo.

È così ovunque?
Oggi ovunque vai, la prima cosa che ti dicono è: “I soldi non ci sono”. I soldi non ci sono: nel cinema, nella lirica e a teatro, ed è difficile tenere alimentato un mito senza soldi. Io abito a Milano da sempre, ho fatto tanti film…  Nell’arco di tanti anni di lavoro sono stato anche chiamato ad allestire delle Opere liriche.  Sono sempre stati lavori molto emozionanti. Nell’opera sopravvivono intrecci, musiche, personaggi immortali e riuscire ad avvicinarli al pubblico di oggi senza tradire la loro tradizione è una scommessa che mi affascina sempre. Chissà se un giorno, qualche direttore della Scala, italiano o straniero se ne ricorderà visto che in televisione non avranno occasione di vedermi molto….

Adesso di cosa ti occupi?
Innanzi tutto dirigo il Centro sperimentale di Milano e sto preparando un “Don Pasquale” che debutterà il 10 ottobre al Teatro Sociale di Trento.  Lavoro sempre con mia moglie Mariapia Angelini che cura le scenografie e i costumi e questa volta avrò anche dei supporti grafici in animazione curati dai miei figli.  Riscoprire la gioia di lavorare in modo autarchico, con pochi mezzi, come all’inizio della carriera, dove le idee contavano più dei soldi, è un modo come un altro per sentirsi sempre giovani.

Quanti figli hai?
Due, Filippo di 29 anni e Saverio di 25. Loro appartengono a una generazione che sa fare tutto: girano, montano, disegnano, animano… hanno un modo di lavorare diverso da quello che avevamo noi, sono figli nostri, ma anche delle nuove tecnologie… ed è una fortuna, così possiamo collaborare insieme e io imparo tutti i giorni qualcosa di nuovo.
Il bello del mio lavoro è cercare di non restare mai troppo legati a qualcosa che si è fatto nel passato. Anche i momenti più fortunati vanno abbandonati per riuscire ad affrontare sempre con ottimismo ed entusiasmo nuove opportunità, nuove tecnologie, nuove esperienze.

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