Intervista a Antonio Calbi
7 novembre 2013
La nostra presidente Anna Crespi ha intervistato Antonio Calbi, direttore del settore Spettacolo, Moda e Design del comune di Milano.
Dove sei nato?
Sono nato in Basilicata, chiamata pure Lucania (unica regione italiana con due nomi!), nel cuore del Sud d’Italia, in un paesino di appena tremila abitanti, allora. A tredici anni con la famiglia mi sono trasferito a Milano. Sono contento di aver visssuto la mia infanzia in questa regione, in un paese così piccolo, tuttavia mi considero milanese a tutti gli effetti: mi caratterizza quel rigore e quell’attivismo, che a volte sfiora il perfezionismo, che secondo un luogo comune non appartengono alla gente del Sud. Le mie radici sono meridionali, ma mi sento profondamente nordico.
Quanto c’è di Sud in te?
Nella mia professione, ma anche nella vita, viene riconosciuta spesso la mia passione. Nel mio lavoro metto sentimento, oltre a rigore e ragione. “Pensare con il cuore, emozionarsi con la mente” è stato lo slogan di una delle mie stagioni al Teatro Eliseo di Roma, quando ne ero direttore.
Sei una persona pessimista?
Che domanda spiazzante!
Il perfezionismo viene anche dal pessimismo…
Non credo di essere pessimista. Ho una visione positiva del mondo, seppure sia sempre più pieno di guasti e in questi ultimi decenni pare sprofondato nel disordine e nell’incertezza. Più che pessimista sono “critico”: non mi accontento mai, rilevo sempre quel qualcosa da migliorare, detesto la sciatteria, la superficialità, le cose fatte male o fatte sensa senso. Insomma, sono un ottimista tendente al perfezionismo.
Si vede che sei ottimista: sei in fibrillazione continua!
Questa “fibrillazione”, come tu la definisci, mi accompagna da sempre, fin dall’infanzia: nel mio paese accadeva ben poco, non c’era alcun intrattenimento e mi piaceva inventare attività. E ne ho combinate di tutti i colori.
Sei fortemente creativo.
Sono creativo, ma non solo in senso artistico, anche nelle cose concrete e quotidiane. Mi piace mettere qualcosa in più anche nella pratica ordinaria.
Per quale motivo ti sei trasferito a Milano con la famiglia?
Alla base di ogni emigrazione c’è spesso un avvenimento doloroso. Mio padre aveva una piccola impresa edile che è fallita. Era il 1975 e non c’erano prospettive di lavoro. Una storia di emigrazione come tante.
Tutta la tua famiglia si è trasferita a Milano?
In un primo momento sono venuto da solo ed è stato molto difficile. Per un anno io e mia sorella siamo stati accolti da due differenti zii materni. Nell’arco di un anno la famiglia si è ricomposta. Per fortuna alcuni parenti di mia madre erano già a Milano ed è stato più semplice ricrearci una vita. Il primo anno per me è stato molto duro. Erano tempi in cui si vedevano ancora, appesi sui portoni dei palazzi, cartelli con su scritto “non si affitta ai meridionali”: cercavamo una casa tutta per noi, ed è stato uno choc molto forte imbatterci in quelle scritte così perentorie. Sembra strano pensarci oggi, ma ho avuto esperienza diretta di cosa sia il razzismo.
Milano è una città difficile per trovare lavoro, per inserirsi?
La mia esperienza conferma che se si è determinati, se si ha volontà e un sogno da realizzare, Milano è con te. Io mi ritengo fortunato: quando sono arrivato la città mi era estranea, ma via via la mia curiosità e la mia voglia di inventarmi la vita ha avuto il sopravvento. Sognavo da sempre di occuparmi di cultura, di arte, di creatività, e quel sogno si è avverato. Milano è stata generosa con me; e lo è con chi ha voglia di fare, con chi si rimbocca le maniche, con chi ha il coraggio di agire.
Quali sono stati i tuoi studi?
Come dicevo, volevo fare l’operatore culturale. Ho frequentato il liceo artistico; successivamente mi sono iscritto all’università di Bologna, al famoso DAMS (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo), e contemporaneamente ho fatto domanda per entrare alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi per frequentare il corso di Operatore per lo spettacolo e la cultura. La prima volta non mi hanno selezionato (sic!); convinto com’ero che quella era la strada giusta, mi sono ripresentato l’anno successivo e ce l’ho fatta. La cosa curiosa è che dopo il diploma e la laurea, ho lavorato, ricoprendo ruoli importanti, proprio alla Scuola Paolo Grassi per quasi dieci anni.
Hai anche insegnato?
Ho insegnato al Politecnico di Milano per sei anni, nel campus alla Bovisa, alla Facoltà di Design; ho pure tenuto corsi e seminari in Statale, Cattolica, Bocconi, in Bicocca, alla Domus Academy, ma anche all’universita La Sapienza di Roma, in corsi finanziati dalla Comunità Europea. Oggi insegno regia teatrale alla Naba (Nuova Accademia di Belle Arti).
Com’era, e com’è il tuo rapporto coi giovani?
Bello, anche se dipende dagli anni accademici. Ogni volta che ho fatto interventi, anche piccoli, nelle università, i colleghi docenti e gli insegnanti hanno riconosciuto un’energia che scuoteva i giovani. Sempre, all’inizio di un corso, faccio una breve introduzione sul senso del teatro, che considero un’esperienza centrale nella vita degli uomini, una “occasione” che la cultura occidentale si è data per vedere, su di un palcoscenico, com’è fatta veramente la vita, come ha annotato Bela Balàsz, uno studioso ungherese dei primi del Novecento, e queste introduzioni hanno ogni volta un effetto forte su chi ho di fronte. Ricordo a tutti che il teatro, in particolare, è come un “parlamento sociale”, dove i dilemmi, i nodi critici, di una comunità riemergono attraverso i testi degli autori, le messe in scena dei registi, le interpretazioni degli attori, per incontrare un pubblico. Un “rito laico” imprescindibile per le società. Mi piace avere a che fare con i giovani, mi piace spronarli affinché capiscano che la cultura è qualcosa di fondante e importantissimo. Non devono limitarsi a navigare su Internet e fermarsi alla superficie delle cose e della vita. Le nuove generazioni hanno grande facilità e dimestichezza con le nuove tecnologie – sono appunto le “generazioni digitali” – ma scarsa propensione all’approfondimento, a “toccare” il pieno senso delle cose, e questo è un guaio. L’ignoranza, non solo in termini di sapere, e una sensibilità di superficie sono sempre in agguato e vanno dilagando sempre di più. E poi li sprono a contribuire al rinnovamento, partendo da una constatazione semplice: la realtà che ci circonda la fanno gli uomini e le donne, e tutti possono, se vogliono, dare il proprio contributo.
Di cosa hanno bisogno i giovani?
Credo che abbiano, sì, bisogno di tecnologia, ma anche di capire che la cultura e le arti sono cose vive e che nutrono l’anima, la pesrona nella sua interezza. E che senz’anima la vita non è. Ci vogliono gli artisti giusti, quelli semplici e allo stesso rivoluzionari, quelli che da cose piccole fanno germogliare grandi cose, immense creazioni, progetti, sfide. Penso a Claudio Abbado e al maestro venezuelano Abreu, ai loro progetti dedicati ai bambini e ai giovani, attraverso i quali hanno restituito alla musica la sua dimensione anche popolare, rendendola nuovamente accessibile a tutti. La musica è un’arte intima, e tutti possiamo goderne; può toccare livelli sofisticatissimi, come nel Ring di Wagner, che richiede competenze di un certo livello per essere compreso fino in fondo, ma poi c’è anche il nostro grande Verdi che ha conquistato alla musica popoli interi, regalando loro il piacere dell’ascolto e della visione con le sue meravigliose opere, nelle quali si intrecciano storie, sentimenti, emozioni. Penso ad artisti di teatro come Peter Brook o Bob Wilson, Strehler o Ronconi, Dodin o Nekrosius, Castellucci o Jan Fabre. Penso a videoartisti come Paolo Rosa o Bill Viola. Tutti hanno operato nel segno della bellezza e dell’invenzione, dell’originalità e della poesia, per tuttii.
Tu hai lavorato con Sgarbi. È stata un’avventura, una sorpresa o una follia?
Tutte e tre le cose. Era l’autunno del 2006 e dirigevo il Teatro Eliseo di Roma. Una mattina ho ricevuto una sua telefonata: mi invitava a Milano per un colloquio per il giorno successivo. L’incontro è avvenuto nel bagno del suo grandioso ufficio di piazza Scala a Milano, mentre una parrucchiera gli sfoltiva la chioma, e mi ha proposto di lavorare con lui, allora assessore alla cultura del Comune di Milano, nel ruolo di direttore del Settore Spettacolo, e ho accettato. È stata un’avventura clamorosa, una sorpresa che la vita mi ha regalato, una follia che ricordo con gusto e affetto. Ho vissuto un anno e mezzo con Sgarbi e mi sono letteralmente “consumato”, come tutti quelli che erano attorno a lui. La ricordo come un’esperienza importante per la mia carriera, e oltre alle tante belle cose che abbiamo realizzato insieme mi piace ricordare il rispetto reciproco che ha caratterizzato il nostro lavoro comune.
È una persona difficile?
È un anarchico allo stato puro, ma con un sapere sconfinato, un fascino che fa presa sulle persone comuni, una intelligenza fuori dall’ordinario. Ha lanciato idee, ha avuto intuizioni su Milano; purtroppo spesso è prigioniero del suo personaggio. A me è piaciuto scoprire che dietro il personaggio pubblico che si è costruito, c’è una persona con umanità, affettività e generosità. Mi ha lasciato autonomia, abbiamo condiviso progetti. Personalmente, va da sé, preferisco Sgarbi persona allo Sgarbi personaggio. È stato un periodo faticoso, ma ricco di soddisfazioni. Credo che il suo allontanamento dall’assessorato l’abbia profondamente ferito; era un ruolo che gli piaceva molto ma alcuni suoi estremismi ne prefiguravano la brusca interruzione, che poi è accaduta. Dietro l’apparente caos, aveva un disegno, una visione. E poi credo che con la maturità piena sia anche un po’ cambiato, mi pare un po’ più ponderato, riflessivo, contenuto.
Tu sei direttore del Settore Spettacolo, Moda e Design del Comune di Milano. Ti occupi di tante cose!
Dal 2007 al 2011, con Letizia Moratti, ero Direttore solo del Settore Spettacolo: è un settore complesso e impegnativo perché Milano è una “capitale” dello spettacolo a tutti gli effetti. Mi occupavo di musica, cinema, teatro, danza, multimedia. Gestivo un budget di 23 milioni di euro; sono tanti! La maggior parte erano destinati alle grandi istituzioni: Scala, Piccolo Teatro, il nuovo festival Mito…. Con il cambio di amministrazione, da Moratti a Pisapia, il mio contratto di collaborazione si è interrotto. Nell’estate 2011 è stato indetto un bando pubblico per l’assunzione di nuovi dirigenti. Vi ho partecipato e sono stato selezionato, tra un numero vertiginoso di candidati, da una società esterna al Comune e sono tornato: a dicembre 2013 completo il settimo anno di pubblica amministrazione. Oddio, il settimo anno! In questi ultimi due anni ho operato, come dicevi, su tanti fronti: oltre allo spettacolo, di eventi, moda, design, creatività giovanile… con entusiasmo e senza risparmiarmi, come sempre. Dapprima con Stefano Boeri, oggi con Filippo Del Corno.
Com’è stata, invece, la tua esperienza al Teatro Eliseo di Roma?
Anche quella è stata un’esperienza impegnativa e insieme gratificante. Insieme al Teatro Argentina, l’Eliseo è il teatro più importante di Roma. È il teatro dei grandi attori e registi. Prima sono stato assistente del direttore Giuseppe Patroni Griffi: il grande maestro e il giovane allievo. In seguito ne sono diventato direttore.
Come hai diretto l’Eliseo?
Ho fatto dialogare la grande tradizione con il nuovo, i grandi nomi e gli artisti ancora poco conosciuti, anche grazie alla compresenza di due sale, la grande e la piccola, ponendo cura speciale al pubblico. Ho innovato riformando, ed è andata bene. Non sono stato un semplice direttore artistico: ogni volta che concepisco un progetto o conduco un’istituzione, li governo e li controllo da tutti i punti di vista, seguendo ogni dettaglio. Non possono essere scindibili l’aspetto contenutistico, la produzione, la programmzione, la promozione e la comunicazione. Ogni istituzione reclama uno specifico modo di essere guidata, ogni progetto ha il suo modo di essere concepito e di essere concretizzato. Per me essere direttore dell’Eliseo ha significato fare buone stagioni, svecchiarlo, creare nuovo pubblico, inaugurare nuovi fronti operativi, aprirlo ancora di più alla città, ferna un a vera e proria “agorà”. Poi è arrivata la telefonata dal Comune di Milano. Prima di decidere ho avuto molti dubbi. Sono contento della mia scelta, seppure qualche volta mi domando cosa sarebbe successo se fossi rimasto a Roma, magari avrei diretto il Teatro Argentina o l’Auditorium Parco della Musica, oppure, considerato che è la capitale, con tutto l’apparato governativo e politico, sarei stato chiamato a dirigere un istituto italiano di cultura all’estero, un altro dei miei sogni.
Ti sei occupato anche delle Olimpiadi di Torino nel 2006.
Sono stato consulente delle cerimonie di apertura e di chiusura delle Olimpiadi, eventi spettacolari trasmessi in mondovisione, cui ho contribuito con generosità e idee. In qualità di consulente, avevo il compito di indicare gli artisti da coinvolgere nelle due cerimonie. Fra tutti gli altri artisti da me indicati, ho voluto, ad esempio, Daniele Finzi Pasca, il regista italo-svizzero-canadese che ha curato la bellissima cerimonia di chiusura. La cerimonia di apertura era più colorata, ridondante e faraonica; quella di chiusura più raffinata, magica e onirica.
Cosa ti ha mosso di più nella tua vita fino a oggi?
La sfida, la passione. Lavoro tanto, forse troppo. È tempo forse di rallentare un poco. In più di trent’anni di lavoro ho sperimentato quasi tutti i mestieri nel mondo della cultura (oltre al resto di cui abbiamo parlato, sono stato ideatore e curatore di festival e progetti, critico teatrale per Repubblica, conduttore di una trasmissione radiofonica in Rai, redattore di una importante rivista di design, curato libri…). Mi ha sempre mosso il desiderio di regalare momenti di bellezza, emozione e intelligenza alle persone, ai cittadini. Di contribuire al senso delle arti e delle culture, in una realtà in continuo mutamento. Considero la cultura e l’arte esperienze fondamentali. È stata come una missione per me: sentivo che dovevo dare il mio contributo affinché la cultura fosse meno esclusiva e meno convenzionale, che rimanesse viva, autentica, vera, che si rinnovasse di continuo e fosse accessibile a tutti. Mi sono occupato molto anche di ricambio generazionale, scoprendo e promuovendo giovani artisti e offrendo loro nuove opportunità. Ho rispetto per i grandi e proprio per questo penso che ci debba essere un rinnovo della tradizione. Lo spettacolo deve essere sempre vivo; se non “parla” al pubblico, vuol dire che ha smarrito per strada il proprio obiettivo, il proprio senso più profondo.
Le tue esperienze ti hanno cambiato?
Non so dire se le esperienze che ho fatto mi hanno cambiato o meno. Mi hanno comunque nutrito, arricchito, maturato. Tutte le cose che ho fatto, che ho vissuto in prima linea, mi hanno dato qualcosa.
Cosa porti con te delle tue origini mediterranee?
La passione, la curiosità e la voglia di fare, come abbiamo detto. Cui mi piace aggiungere la serietà, la generosità, la correttezza, la lealtà, la sincerità, il rigore. Valori cui tengo molto e forse un po’ perduti, nella realtà odierna. Mi piace pensare che la natura e il destino ci metteno al mondo perché facciamo qualche cosa di utile nella vita, così che ognuno abbia il suo giusto posto sul palcoscenico dell’esistenza, che faccia bene a sé e agli altri. Sono idealista? Utopico?
Che cosa ha significato per te il Patalogo e la collaborazione con Franco Quadri?
Anche questa è stata un’esperienza forte. Considero Franco Quadri uno dei pochi maestri che ho avuto. È stata un’occasione intensa e formativa perché ha appagato la mia curiosità, la mia volgia di crescere: il Patalogo era un labirinto di notizie in cui perdersi, a cui dare forma senza renderlo noioso. Sono stato prima semplice redattore poi caporedattore; e anche questa anomala esperienza editoriale mi ha arricchito. Quadri aveva l’abitudine di tornare dai suoi frequenti viaggi con ritagli di giornali, notizie appuntate che potessero servire al Patalogo. Io, ancora adesso, faccio lo stesso esercizio per me stesso: ritaglio, accumulo pagine di giornali, annoto appunti…
Hai avuto altri maestri?
Riconosco pochi maestri fondamentali per la mia crescita. Un’altra figura importante per me è stato il professor Sisto Dalla Palma, fondatore del Centro di Ricerca Teatrale di Milano. Franco Quadri e Sisto Dalla Palma, che peraltro non si amavano, sono stati due figure complesse ma centrali per il teatro degli ultimi quarant’anni, e stranamente ci hanno lasciati a breve distanza l’uno dall’altro. Con loro si è concluso un ciclo; sono stati un punto di riferimento imprescindibile per più di una generazioni di artisti, operatori, studiosi, critici. Fra i miei punti di riferimento accademici pongo due grandi studiosi come Claudio Meldolesi e Franco Ruffini.
Tu hai lavorato con diversi assessori: Sgarbi, Finazzer Flory, Boeri e adesso Del Corno. Com’è lavorare per persone così diverse?
Dal 2007 a oggi ho dovuto cambiare cinque volte, perché non bisogna dimenticare che il sindaco Letizia Moratti ha tenuto per sé l’interim della cultura per sei di mesi, dopo l’allontanamento di Sgarbi. Cambiare quattro assessori alla cultura in sei anni è davvero troppo, per una grane città come Milano! Sto lavorando a un volume (quelle rare domeniche che non sono impegnato con il Comune) che è un’indagine su come gli assessori della cultura hanno sopperito alla mancanza di una politica culturale centrale, ovvero dello Stato, seria e organica, e che cerca di dare delle risposte e fare il punto su un dilemma enorme e centrale qual è la politica culturale nel nostro disgraziato Paese. Perché tutti questi cambiamenti e avvicendamenti di assessori alla cultura a Milano e nel resto della nazione? Sono state scelte sbagliate di partiti e sindaci? Gli assessori hanno malamente interpretato il loro ruolo? Ma tornando alla tua domanda, sono state esperienze diverse fra loro, e nella diversità c’è sempre qualcosa di positivo, e come ho già detto, ognuna mi ha dato qualcosa. Sento molto la responsabilità e l’importanza del ruolo che svolgo attualmente; sento fortemente il dovere e la serietà che debbo mettere nel curare il bene pubblico; la centralità di una buona pratica della pubblica amministrazione, in un paese che deve fare tanti passi avanti e molti cambiamenti, a partire da questo ambito.
Ti sarebbe piaciuto essere direttore del Piccolo?
Opla! Che domanda imbarazzante e a brucia pelo? Ma ti risponderò ugualmente. Ho appena compiuto due volte venticinque anni e diventare direttore del Piccolo Teatro di Milano, uno dei più prestigiosi teatri al mondo, è un mio desiderio da tempo, perché nasconderlo? Un sogno che poi non si avvererà perché la mediocrazia in Italia è preferita alla meritocrazia. Ritengo che potrei essere un buon direttore. Sono cresciuto a Milano e mi sono nutrito anche del Piccolo Teatro di Strehler, Ronconi ed Escobar. É come se sentissi il Piccolo sulla mia strada, che se fosse un approdo predestinato… E per proseguire nelle ambizioni, sento di avere il profilo adatto anche per dirigere la Triennale! Oggi, però, chi può scommettere sul futuro?
Il tuo futuro sarà fortunato, ne sono certa: anche perché sento che resterai sempre giovane.
Se non mi consumo prima, però!
Non ti consumi, ti ricrei.
“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”