Antonio Pappano agli Amici della Scala. Un incontro.
28 marzo 2014
Brillante. Divertente. Di ampia levatura. Musicale. Questi, e una lunga lista di altri aggettivi, potrebbero descrivere l’incontro dello scorso 12 marzo, tra il maestro Antonio Pappano e il critico musicale Enrico Girardi.
Ma potrebbero anche descrivere allo stesso modo la personalità di Pappano, che è emersa durante l’appuntamento con i nostri soci. Non un austero direttore d’orchestra imbrigliato nel ruolo che la fama (e la bravura…) gli permetterebbe. Ma un simpatico, brillante e grande uomo che dirige orchestre.
I soci sono stati entusiasti di aver potuto assistere a un dialogo che oltre a affrontare l’argomento, necessario, di “Les Troyens“, l’opera di Berlioz che il Maestro dirigerà alla Scala il prossimo aprile (e che, rappresentato nella sua interezza è una rarità, sarà addirittura la prima volta alla Scala…), ha spaziato tra episodi della sua vita e digressioni musicali.
Vi proponiamo di seguito l’integrale dell’incontro.
Sono molto onorato di essere interlocutore del Maestro Pappano. Vorremmo averti tra di noi più spesso, a Milano! Il Maestro dirigerà Les Troyens di Berlioz. L’opera è stata definita come il Ring francese, perché, al pari di quel capolavoro, è un’opera in cui il compositore non mette freno alle ambizioni, al pensare in grande; non si fa condizionare da tradizioni e standard. È un’opera in cinque atti talmente ampia e articolata che l’autore non riuscì neppure a vederla tutta: la seconda parte, ispirata al celebre quarto libro dell’Eneide, venne rappresentata nel 1863, pochi anni prima della morte dell’autore. La prima, che si ispira al secondo libro dell’Eneide fu rappresentata solo nel 1899.
La prima domanda che rivolgo al Maestro Pappano è: quale edizione di Les Troyens vedremo alla Scala? Immagino che non tutti i 52 numeri della partitura integrale siano eseguiti; oppure lei invece ci svela che sarà così?
Questo spettacolo nasce in co-produzione con Royal Opera House di Londra, dove sono direttore stabile. Al Covent Garden abbiamo eseguito tutti i numeri tranne alcuni piccoli tagli interni. Alla Scala stiamo cercando piccolissimi tagli interni, cose non importanti: si eseguirà tutto il pezzo, meno piccolissime cose.
L’opera è epica ed è sbagliato cercare di accorciarla per ragioni drammaturgiche. Ma è un’opera viva proprio per la sua lunghezza, adatta a questo tipo di teatro colossale. Anche Don Carlo è un’opera che può essere eseguita in 4 o 5 atti e nella quale la bella musica dà conforto, mostra tutto quello che Verdi voleva esprimere. Io ho eseguito Don Carlo una volta in francese; tre volte in cinque atti in italiano. I boscaioli all’inizio, Lacrimosa, il cambiamento dei vestiti… sono piccole cose che rendono la serata lunga, ma la arricchiscono e “spiegano”.
Les Troyens è un evento, non una serata normale.
Questo grande affresco epico ha vari aspetti: lirico, sentimentale, drammatico, narrativo, paesaggistico… Ci sono tanti Berlioz diversi. Cosa li unisce?
Il fatto che noi fin dall’inizio sappiamo che Enée è scelto per fondare l’Italia: questo è il cammino. Allora tutta la tragedia, la parte bellica, la parte violenta, il suicidio delle donne, l’utopia di Cartagine… sono tutti elementi legati da qualcosa che alla fine succederà. Per il compositore questa è la strada da seguire. Berlioz era un brillante compositore di canzoni di tutti i tipi. Diverse atmosfere, profonde, di campagna, romantiche, esotiche… Aveva la capacità di reinventarsi. La difficoltà di dirigere Les Troyens è proprio questa: reinventarsi in ogni pezzo. Il coro iniziale esplode, dopo dieci anni di guerra ed è scritto con euforia elettrica, caos organizzato; subito dopo la musica cambia e c’è l’entrata di Cassandre, un carattere che m’immagino come dieci volte Anna Magnani! Ma ritmicamente la musica è sempre molto classica, delineata, molto percepibile dal pubblico. Nella prima parte dell’opera, ci sono ariette, grandissimi cori, marce, musica da dietro la scena che crea l’effetto della distanza. Nella marcia dei troiani ci sono tre bande: una lontana; una medio-lontana; una sul palco, più vicina. Suonano insieme, una cosa per quegli anni pazzesca. Non solo per l’orchestra, ma anche per il coro che deve cantare con un ritmo quasi sempre molto scandito. Per un coro italiano questo è un lavoro abbastanza difficile; c’è concentrazione sul legato, bellezza e sontuosità del suono. Siamo teatrali fin dall’inizio grazie al ritmo.
Hai usato due aggettivi: romantico e classico. Ci sono aspetti nuovi nell’orchestrazione, ma anche aspetti che segnano la classicità, come la vocalità. Tra questi due elementi c’è contrapposizione, oppure si conciliano e stanno insieme? È uno degli elementi di maggiore originalità di questa partitura: la convivenza della classicità e della visionarietà di Berlioz.
Dobbiamo ricordare che Berlioz ha scritto nel 1830 – più di 30 anni prima – La sinfonia fantastica, molto legata a Beethoven. L’aspetto classico è genuino, non imitazione, è parte della sua educazione di musicista, ma deriva anche dai suoi studi: suo padre gli aveva fatto studiare Virgilio. Nella Sinfonia fantastica la droga, l’amore, l’ossessione lo portano a scrivere un’opera visionaria, fuori ogni misura: fa parte del suo talento. Quando ha scritto Les Troyens era un musicista un po’ più frenato, aveva una sofisticazione abbastanza sviluppata. Ma resta la capacità di sorprendere. E Berlioz sa proprio sorprendere, andare al di là della logica sia drammaturgica, sia passionale, sia musicale. Ho diretto La sinfonia fantastica e, più volte in teatro, La damnation de Faust… è tutta una sorpresa. Se siamo capaci di tenere il pubblico interessato fino alla fine dello spettacolo, vale la pena. La musica ha rigore, bellezza, romanticismo, gioventù e maturità incredibile. Sono tutte cose contraddittorie, ma è il mondo di Berlioz.
C’è un dettaglio, un punto che preferisci? C’è un punto nei Troyens che ti esalta in particolare?
Sono tanti e diversi. Una cosa ovvia: quando arriviamo al duetto d’amore tra Enée e Didon i due cantanti godono dell’accompagnamento musicale e c’è l’acuto del tenore. Quando lo ascolto mi ingelosisco perché quell’acuto non lo potrò mai prendere, ma è un momento per me dove l’artista si è aperto e scoperto. È di una bellezza unica.
Sei direttore del Covent Garden e dell’Orchestra e Coro di Santa Cecilia, che con te sono diventati una formazione di livello internazionale. Tu conosci perfettamente le tue orchestre, sai come lavorare con loro. Alla Scala invece non c’è questa consuetudine e conoscenza reciproca; cosa pensi? Qual è il tuo rapporto con questa orchestra? come trovi questa orchestra e questo teatro? Su cosa pensi sarà necessario lavorare di più?
Ho molta fiducia nel fatto che l’orchestra suoni con un repertorio abbastanza vario. Pensiamo a Una sposa per lo Zar, il Trovatore, Lucia di Lammermoor, ora ci sono Les Troyens… fanno parte della cultura musicale di questa orchestra. L’orchestra d’opera ha una sensibilità di ascolto diverso dalle altre orchestre. Faccio conto sulla loro flessibilità nell’espressione. La drammaturgia teatrale chiede passione specifica per ogni momento, scena, carattere; l’aspetto tecnico è una sfida enorme, anche solo per tenere insieme tutto. Questa concertazione è il mio lavoro. Troviamo un suono che non è romantico con la “r” maiuscola; il vibrato è molto concentrato, molto ridotto. Tutta l’attività dell’orchestra, ed è notevole negli accompagnamenti, si sente tutta. La trasparenza non è sempre positiva in tutte le musiche. In Berlioz aiuta, perché ci sono felicità orchestrali incredibili.
Riesci a farci un esempio di orchestrazione diversa da qualsiasi altra?
C’è una scena in cui appare lo spettro di Hector, è una scena bizzarra. Gli archi sono gravi, violoncello, viole e contrabbassi fanno accordi stranissimi. È tutto cupo, scuro, fango; e c’è il suono del coro in sordina che è come una voce lontana. È un’orchestrazione completamente fuori uso. Per lo spettro, Berlioz ha cercato suoni estremi nel basso; è all’inizio del secondo atto. All’inizio del primo atto, con l’euforia dei troiani che credono di aver vinto la guerra, utilizza appena gli archi; è tutto senza gravi… ha creato un suono che è fantastico. È qui il contrasto tra lo spettro e l’euforia. Lo trovo molto interessante.
Ci racconti del lavoro che stai facendo con il coro, che forse è il personaggio principale?
Il coro della Scala prima di tutto è un coro con un suono unico, sontuoso, pieno di carattere. Ho trovato un ambiente molto artistico. Già dalla seconda prova ho capito di avere a che fare con musicisti che sanno fare il loro lavoro. Con il coro ho uno scambio molto interessante; memorizzare e interpretare tutto è un lavoro enorme. Per essere il protagonista della serata, il coro deve essere preciso nell’espressione; non basta il bel suono. Il loro impegno è straordinario. Sono artigiani del teatro, parliamo la stessa lingua. Il coro deve essere molto brillante, molto scuro, molto chiaro, molto lento, molto vivace… tutto “molto” perché giocano agli estremi. Quando il coro è sulla scena c’è una magia: non ci sono altre opere con la stessa magia. Berlioz comincia dove altri finiscono, se il coro ha la forza e la convinzione ritmica da trasmettere al pubblico, il risultato è pazzesco.
Conosco il Maestro Casoni da poco, ma in questi giorni ho capito tutta la sua tradizione. Da giovane sono stato influenzato anch’io da Romano Gandolfi, dalla scuola italiana dei maestri del coro, cui Bruno appartiene. In quest’opera il legame tra di noi è fondamentale, altrimenti sarebbe un disastro!
Per quanto riguarda i solisti, il tenore Gregory Kunde interpreta Enée, un ruolo non facile. Per esempio, la sua furia quando racconta l’uccisione di Laooconte: non c’è tempo per respirare e alla fine deve prendere un Si naturale; non so come riescano i solisti! Conosco Gregory da trent’anni: è diventato un tenore rossiniano di un certo spessore. Oggi sta cantando un repertorio incredibile: Otello di Verdi e Otello di Rossini. Ha saputo mantenere la tecnica classica e si può permettere di cantare un ruolo come Enée, che ha già interpretato 10 anni fa a Parigi; adesso è proprio giusto per questo ruolo. È l’unico personaggio che canta per tutti e cinque gli atti. Didon, infatti, comincia al terzo atto: è interpretata da Daniela Barcellona un’altra cantante rossiniana con una grande classe musicale e vocale; credo che in lei ci sia una profondità genuina. Poi c’è Anna Caterina Antonacci, Cassandre: bisogna vedere cosa fa sul palco! È ideale per questo ruolo, è l’unica cantante che ha partecipato anche alla produzione londinese.
Cosa ci dobbiamo aspettare per quanto riguarda la messa in scena?
Il cavallo è molto riuscito! La prima visione è aspra, brutta, bellica: dieci anni di guerra, un paese devastato. Dopo un certo tempo si apre e iniziano le cerimonie e i rituali del dopo guerra. C’è il mondo di Cassandre di fango, sospetto, paranoia e ossessione. È con Cartagine, il sole del terzo atto: l’utopia, il benessere, la ricchezza, la gioia. Avrete uno spettacolo che veramente rappresenta il contenuto e non è solo decorativo: è caldo, mediterraneo, bello.
Il Maestro Pappano ha un rapporto col suono che lo rende capace di passare da Berlioz a Bach, da Wagner a Verdi, sempre con profondità, vivacità, intelligenza interpretativa… mi piacerebbe capire da dove viene questo rapporto così fisico con il suono.
Io non ho mai avuto l’ambizione di dirigere. Sono nato in Inghilterra da genitori italiani; negli anni ’70 ci siamo trasferiti in America, sono stato assistente di Barenboim, e con lui sono stato a Bayreuth, in Israele; parlo italiano, inglese, francese, tedesco… mi interessano tutte le culture e i diversi dialetti, le particolarità di ciascuno. Come musicista ho suonato anche in chiesa, nei musical… tutto questo fa parte di me. Ho un rapporto con tanti suoni, sono eclettico. Il Maestro Barenboim mi ha detto, una volta, una grande cosa: la curiosità sviluppa una persona. Se vuoi sapere qualcosa chiedi, leggi, studia, approfondisci, scava… fa’ tutto quello che puoi per cercare un’informazione. Questo mi ha fatto pensare che io sarei potuto essere visto non come direttore d’orchestra italiano, ma semplicemente direttore d’orchestra.
Naturalmente nella vita musicale ci sono momenti chiave. Faccio un esempio. Era il 1993 e dirigevo i Capuleti e Montecchi a Berlino, al teatro di Barenboim. È un’opera che adoro. Ero a casa e ho ricevuto una telefonata dal direttore del Teatro di Vienna. Si era ammalato il direttore Von Dohnàny per la prima di Siegfried di Wagner. La generale era il giorno dopo: mi chiamava per dirigere la prima. Io sono diventato un pezzo di legno e ho risposto: “Chiamo tra dieci minuti”. Barenboim non poteva sostituirlo, io non avevo mai diretto a Vienna, non avevo mai diretto Wagner. Ero seduto e non ho pensato, ho preso il telefono e ho detto: “Sì”. Sono sceso dall’aereo a Vienna e mi hanno portato al letto del maestro Von Dohnàny ammalato, un momento drammatico; mi ha dato alcuni consigli. Ho capito dalle sue spiegazioni che forse conoscevo l’opera meglio di quanto pensassi. Mi hanno portato all’Opera dove mi aspettavano i Wiener Philharmoniker. Mi ero messo in testa di provare tutto dall’inizio alla fine. A Bayreuth avevo lavorato con i cantanti e conoscevo l’opera, ma non l’avevo mai diretta. Ero in uno stato di shock, dopo il primo atto non volevo andare avanti. Dal secondo atto ho iniziato a sentire quello che non mi piaceva. E ho fatto così: mi fermavo, correggevo e lavoravo con l’orchestra. Dopo sette ore di prova generale abbiamo finito. Ho diretto la prima di Siegfried e quel giorno avevo una calma olimpica! Ho fatto tutto quello che dovevo fare ed è stato un successo. È importante: a volte ci vuole un momento così, dove prendi il rischio più importante della tua vita.
In questo percorso che ti ha portato a conoscere tante realtà diverse, quali sono state le figure chiave, coloro che ti hanno dato di più?
La mia vita di musicista “privilegiato” è fantastica, ma non facile; e devo ringraziare mia moglie. Eravamo pianisti insieme all’Opera di Chicago; abbiamo suonato per Bartoletti tante volte. Come Maestro di pianoforte e composizione ho avuto la fortuna di lavorare con Arnold Franchetti. Ho avuto il privilegio di avere accanto fantastici cantanti. Ho trascorso due stagioni a Barcellona e ho lavorato con la Montserrat Caballée, Mirella Freni, José Carreras, Plàcido Domingo, Alfredo Kraus. Quei suoni sono penetrati nel mio orecchio e sono sempre presenti. Ho lavorato anche a Francoforte dove ho scoperto il mondo iconoclastico – e forse per gli italiani più ostico – della regia, che è davvero affascinante se fatta bene. Ho imparato l’importanza della parola. Si parla della musica prima o dopo la parola: ma la parola c’è sempre stata, è fondamentale. Il bel suono e il bel canto ci devono essere, ma se non c’è l’idea drammaturgica la musica diventa un mondo vacuo e vuoto.
Quando dirigo ho bisogno che il cantante capisca il “perché”. Se uno spettacolo convince è perché ho “bastonato” i cantanti fino in fondo perché siano i numeri uno, non perché siano solo bravi cantanti… Devono essere convincenti sul palco e cercare di esprimere lo spirito di quello che stanno dicendo.
Uno dei più grandi interpreti di Berlioz è stato Colin Davis. Era davvero così speciale quando dirigeva Berlioz?
Colin da giovane era un uomo di fuoco. Questo in Berlioz è importante. Davis aveva luce ed elettricità in sé e per questa musica sono caratteristiche fondamentali. La mia più grande sfida è continuare il lavoro iniziato da Colin Davis. È stato uno dei miei predecessori al Covent Garden; il mio legame con lui continua nei Troyens.
Vuoi aggiungere qualche cosa?
Sono molto curioso di vedere come questo spettacolo prenderà vita in questo Teatro: musicalmente, tecnicamente, ma anche nel rapporto con il pubblico. So che la Scala ha una passione vera, una grande tradizione di fare teatro e musica insieme. Insieme abbiamo passato un anno interessante, il 2013, con Verdi e Wagner. Nelle interviste mi chiedono sempre se è meglio Wagner o Verdi. Sono domande che non mi interessano: sono entrambi compositori che cercano diversi tipi di teatro, ma entrambi cercano la libertà. Io vorrei comunicare energia. Nei Troyens è evidente la bruttezza bellica, il dopoguerra: sono scene che vediamo tutti i giorni alla televisione. Questo rende impossibile che il primo impatto sia bello. In Italia abbiamo un piccolo problema: la bellezza deve esserci a priori. Ma credo che ci debba essere una grande flessibilità da parte del pubblico: che capisca che il bello è solo bello quando è in confronto con il brutto; il brutto è solo brutto se in confronto con il bello. È un gioco continuo, come in musica; fatto di tensioni e rilassamenti, dissonanza e assonanza. E io vivo per questo rapporto sia musicale, sia teatrale. Spero che il pubblico condividerà questo mio pensiero e mi auguro che andrà in teatro pensando: “Sanno quello che stanno facendo; questo è chiaro, è un’espressione chiara”. Se il pubblico capirà, allora saprò che è aperto esteticamente ad altri punti di vista!
Di seguito una galleria con le foto scattate da Francesco Maria Colombo. Potete visitare il suo sito QUI.
- Un momento dell’incontro ©Francesco Maria Colombo
- Un momento dell’incontro ©Francesco Maria Colombo
- Girardi, Casoni, Nandi Ostali e Pappano ©Francesco Maria Colombo
- Un momento dell’incontro ©Francesco Maria Colombo
- Il Maestro Pappano, la soprano Adriana Maliponte e Anna Crespi ©Francesco Maria Colombo
- Antonio Pappano ©Francesco Maria Colombo
- Il maestro Pappano e Enrico Girardi ©Francesco Maria Colombo
- ©Francesco Maria Colombo
- Un momento dell’incontro ©Francesco Maria Colombo
- Antonio Pappano ©Francesco Maria Colombo
- Cesare Rimini ©Francesco Maria Colombo
- Bruno Casoni ©Francesco Maria Colombo