Intervista a Marta Morazzoni

29 gennaio 2014

Lo scorso 20 gennaio nella nostra sede è stato presentato l’ultimo libro di Marta Morazzoni “Il fuoco di Jeanne”, pubblicato per i tipi di Guanda.

Presenti a festeggiare la Professoressa Morazzoni e l’uscita del suo nuovo lavoro oltre alla casa editrice Guanda Editore, con il patron Luigi Brioschi, tanti esponenti del mondo della cultura milanese.

Pubblichiamo una intervista che la nostra Presidente Anna Crespi le ha fatto qualche tempo fa, prima dell’uscita del suo libro…

Marta Morazzoni

Marta Morazzoni

Perché hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere dopo aver letto Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Avevo ventisette-ventotto anni. Mi sono sentita coinvolta in un dialogo con lo scrittore e ho desiderato a mia volta aprire un dialogo con qualcuno attraverso questo mezzo straordinario che è il tempo di riflessione della scrittura.
Sono sempre stata molto appassionata di arte, pittura, musica, architettura e volevo raccontare le cose che amavo. Ho avuto fortuna: tutto quello che ho scritto è stato pubblicato subito.

Parli con qualcuno di quello che scrivi?
Ho relazioni di amicizia e condivisione molto forti , ma ho sempre cercato un modo per entrare in relazione con l’universo delle mie passioni. La mia prima opera era dedicata a Mozart, la mia figura di riferimento. Il secondo racconto riguardava Lorenzo Daponte, e il terzo Vermeer, il pittore che in quel momento amavo di più.
Raccontare, inventare storie attorno a questi personaggi costituiva il mio modo di relazionarmi con loro.

Proust ti ha aiutato a capire la tua strada? Ti piaceva il suo stile, il suo ambiente?…
Mi è piaciuto il suo lunghissimo romanzo. Per me è diventato un libro guida: mi piacevano le indicazioni che disseminava, di pittura, di musica… Tutto si svolgeva all’interno dell’ambiente parigino, un po’ vero e un po’ immaginario. Proust mi suggeriva un modo di parlare delle cose che amavo.

Tu sapevi di voler scrivere?
Non avevo mai pensato di scrivere. Non ho mai tenuto un diario… Mi occupavo – è vero – di critica teatrale a Milano; ma la critica è una cosa diversa dalla scrittura.

Quando hai iniziato a scrivere, avvertivi che nasceva qualcosa?
Sentivo che nasceva un’idea, ma non ne avvertivo la consistenza…

Ti piaceva?
Non sapevo se il risultato era buono, ma mi piaceva lo strumento. Mi piaceva anche il rapporto con la carta; avere la penna in mano. Usavo delle carte veline per scrivere, e scrivevo solo da un lato: avevo la percezione che qualcosa di me si stava riversando sul foglio.
Ero anche un po’ incredula. Nella mia mente gli scrittori sono sempre stati una cosa seria. A cinque anni mio padre mi ha regalato il libro di Pinocchio e me l’ha letto tutto lui perché ancora non sapevo leggere. Quando sono arrivata a scuola il primo anno è stata una gioia imparare a decifrare le parole. Credo sia stato il primo grande passo: dal mio amore per la lettura è nata col tempo la scrittura.
Non sono mai stata la “prima della classe” a scuola; non ho mai scritto temi “magnifici”. Ho avvertito per la prima volta il piacere di scrivere con la tesi di laurea.

Hai studiato psicologia?
Seguivo corsi di psicologia all’Università degli Studi di Milano, ma poi sono passata ad antropologia. Ho fatto la tesi di laurea sugli eschimesi, una cultura così diversa dalla nostra. Ho scoperto che quando un etnologo aveva fatto ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven a una comunità di eschimesi, questa comunità aveva reagito male. Ho iniziato in quel momento a pormi delle domande: ciò che io considero universale, ciò che per me è fonte di piacere, altrove può essere fonte di disagio…

Hai scoperto il perché?
Gli eschimesi hanno un orecchio per la musica che non è legato al rapporto armonico e melodico, ma soltanto al rapporto ritmico e monodico.

E Mozart?
Mozart è stata una scoperta stranissima e tardiva. Mi sono innamorata di Mozart ascoltando Le nozze di Figaro; mi avevano regalato la versione di Carlo Maria Giulini.
Ma la mia prima grande passione fu per Gustav Mahler.

C’è una connessione tra Proust e Mozart?
Dietro un’apparente semplicità, entrambi nascondono un’enorme complessità di pensiero e di elaborazione formale. Tuttavia traspare la sensazione di assoluta consequenzialità del loro produrre. Le parole in Proust vengono con grande naturalezza; in Mozart le note vengono come se non potessero che susseguirsi così. Prima sono però passata attraverso il tourbillon mahleriano.

Hai capito quale ruolo riveste la semplicità nella tua arte?
È continua ricerca: avere un obiettivo da raggiungere. All’inizio non scrivevo in modo semplice, ero estremamente “decorativa”, avevo bisogno di dare colore alle cose che scrivevo. Pian piano ho assunto un atteggiamento più asciutto ed essenziale. La semplicità mozartiana è quella che mi piacerebbe raggiungere.

La semplicità è del genio. Arrivare alla semplicità è un percorso lungo. Ti aiuti con una scaletta?
No, io comincio a scrivere e non so mai come andrà a finire. In corso d’opera si declina il racconto. Tutte le volte interagisco con i personaggi: l’importante è vederli, percepirli quando affiorano nella trama. È la cosa più complicata.

Tu senti i tuoi personaggi, la loro fisicità?
Sì. Ad esempio mi è successo in La nota segreta: non riuscivo a mettere a fuoco la descrizione della protagonista. Un giorno mi sono imbattuta in una ragazza che si è voltata all’improvviso: ho colto una sguardo e ho capito che era lei. Questo mi ha dato la materia di partenza per lavorare sulla sua fisicità.

Ti è capitato solo una volta?
Mi capita sempre. Io ho bisogno di vedere i miei personaggi; si può trattare anche di un colpo d’occhio su un quadro.

Sei fisionomista?
Se qualcosa mi colpisce lo memorizzo definitivamente.

La presentazione del nuovo libro di Marta Morazzoni nella nostra sede

La presentazione del nuovo libro di Marta Morazzoni nella nostra sede

Che domanda ti faresti?
Senza dubbio, questa: “Perché scrivi?”.
È una domanda che ultimamente mi sto ponendo. Ho iniziato a scrivere nel 1982; ho pubblicato per la prima volta nel 1986. Ho continuato con lentezza a scrivere ancora. Il mio editore, Mario Spagnol, era estremamente rispettoso dei tempi dei suoi autori. Ho sempre avuto la sensazione che raccontare qualche cosa mi piacesse. Quando ho scritto La nota segreta mi sono posta la domanda: “Perché racconto? A chi interessa ancora il racconto? Il mio linguaggio serve ancora?”. Sono in una fase critica della mia vita.

Scrivi perché serve a te?
Mi è servito. Adesso è un momento difficile: non so se ho ancora voglia di dire qualcosa… Scrivere per me significa avere qualcosa da dire, e in questo momento non so se ho qualcosa di essenziale da dire, o se è il momento del silenzio.

Cosa rispondi al momento del silenzio?
È difficile rispondere al silenzio. Mi rendo conto che è la volontaria amputazione di qualche cosa. Devo trovare un oggetto amato da raccontare, altrimenti devo tacere.

Ora che hai questa forte crisi d’identità come scrittrice, ti aiuta l’amicizia?
In realtà, io credo che il silenzio vada vissuto in solitudine.

A parer mio il silenzio è una pausa necessaria.
Hai ragione. Il problema è accettare questa pausa.

È difficile da accettare?
Scrivere è una sorta di azzardo. Io non mi sento una scrittrice di professione, ma una persona che ogni tanto ha delle cose da dire. Può capitare il momento di tacere: non c’è più nulla, c’è solo il silenzio. È un momento molto complesso, una specie di “piccola morte”. Risorgerò? Non lo so.

È un po’ come quando vai a dormire la sera: sembra una “piccola morte”, ma poi arrivano i sogni.
Arrivano i sogni, ma sono altro, non quello di cui ho bisogno per scrivere.

Tu sei una persona attenta, osservi, hai memoria visiva. Ti piacerebbe scrivere qualcosa di contemporaneo?
Mi piacerebbe. Qualche tempo fa ho scritto una serie di racconti “contemporanei” che narravano storie della mia vita. Però non so se sono ancora pronta ad accogliere e capire attivamente la contemporaneità.
Io non ho la televisione a casa: non la voglio. Ho difficoltà anche con il cinema, ma amo moltissimo il teatro.

Perché ti piace il teatro?
Perché partecipo a qualcosa che vive assieme a me. È un’esperienza interattiva. Il teatro con uno spettatore funziona in maniera diversa che con una sala piena; l’attore reagisce e risponde, intercetta l’umore del suo pubblico. Dialoga anche con me, nonostante io sia in mezzo ad altre persone.

Andare al cinema invece non ti piace?
Non molto. Con il cinema ho un rapporto difficile. Però ho una grande passione per i film di Woody Allen, sono come favole; i suoi racconti mi calmano.

Ti piacciono i ricordi?
Mi piacciono molto. Mi piace anche “fermare” il ricordo: ricordare non solo i grandi momenti, ma anche i dettagli. Credo di avere una memoria molto precisa e puntuale: ricordo bene gli anni in cui le cose sono accadute e perfino le parole dette, le espressioni.

Il tuo editore ti dava dei consigli?
Il mio editore, Mario Spagnol, è sempre stato un editore ideale: non mi dava mai consigli, mi lasciava libera. Per me è stato un giudice affidabilissimo; avevo una fiducia enorme in lui perché lo sentivo come un uomo estremamente severo, che non concedeva niente a nessuno. Il suo “sì”, era il “sì” di una persona convinta.

Hai mai scritto un romanzo autobiografico?
Ho scritto tre storie molto vicine a me, legate l’una all’altra, comparse nel primo libro di racconti del 2006, Un incontro inatteso per il consigliere Goethe. Sono un richiamo molto forte alla mia vita: descrivo la casa della mia famiglia.
In ogni libro che ho scritto c’è sempre qualcosa che mi riguarda molto da vicino.

Tu sei sposata?
Ho un compagno.

Hai figli?
No. Ho un gatto. Io ho avuto un pessimo rapporto con mia mamma. Questo cambia tutto, sbilancia tutto sul piano affettivo. Il libro che ho scritto e sentito più vicino a me è stato Casa materna: parla del rapporto di una madre con suo figlio. È una sorta di autobiografia sfuggente.

Hai paura della morte?
Mi inquieta. Mia mamma è morta due anni fa; ho perso mio papà quando avevo ventidue anni ed è stato un avvenimento che mi ha dato un grande dispiacere. La morte di mia mamma, invece, mi ha fatto sentire il passo del tempo su di me. Il tempo si riduce e si ha la sensazione di avere un’infinità di cose da fare.

Hai bisogno di tenerezza?
La cerco tantissimo. Ho bisogno di tenerezza, di darla e di riceverla.

Il tuo compagno che lavoro fa?
È un manager. Abbiamo un’intesa profondissima perché gli piace leggere; ama la musica e la pittura. È una fusione totale. È una persona capace di grande affettività.

Ti piace la natura?
Anche se abito in una città, camminare vicino a un fiume, essere nella natura è essenziale per me. Mi piacciono molto anche tutti gli animali. È una cosa di cui non saprei fare a meno. Cammino, vado in bicicletta; della natura mi piace molto anche il silenzio.

Quando cammini parli da sola?
Io ascolto. Devo sentire ciò che succede attorno a me. C’è così tanto da ascoltare…
Mi capita di parlare da sola quando ho un problema.

Sei religiosa?
Io credo in qualcosa che non so definire, ma faccio molta fatica ad applicare questo “credo” a una struttura, a una Chiesa, a dei riti. Mi rendo conto che qualche volta prego, anche se non so chi. Il male nel mondo non mi scandalizza, credo che ci appartenga e anche la violenza, purtroppo, fa parte di noi. Non in tutto il male è colpa di Dio, noi abbiamo grandi limiti.

L’ingiustizia ti fa soffrire?
Mi fa soffrire, ma capisco che è un nostro limite, una nostra colpa. Noi portiamo dentro il male e solo raramente abbiamo la coscienza di cosa sia il bene per noi stessi e per gli altri.

Come vedi le donne oggi?
Sono poco attenta a questo tipo di “lettura”. A volte le vedo aggressive, a volte purtroppo le vedo chiuse in un modello un po’ perdente, quando vogliono imitare l’uomo.

Le vedi negativamente?
Non solo negativamente. Non credo più alle rivendicazioni del femminismo in voga qualche anno fa: uomini e donne sono realtà diverse; è l’individualità che ci salva. Ciascuno di noi, uomo o donna che sia, ha una sua formazione e una sua storia che ci porta a essere diversi nei rapporti con gli altri. Io, ad esempio, trovo ridicole le quote rosa, pensare che in un’istituzione ci debba essere un numero pari di uomo e donna: è una concezione che va contro l’individuo. Sono rivendicazioni faziose.

C’è un’altra domanda che ti vorresti fare?
Mi chiederei: “Perché ami tanto la Grecia?”. La amo tantissimo; amo il passato di questo paese.

Anche l’Odissea?
La sto rileggendo; la porto sempre con me e la leggo a pezzi Questo mondo mi piace perché credo che sia la nostra origine, il nostro principio.

È un modo di raccontare chiaro.
Anche l’uso degli aggettivi è così immediato. Per me questo è il mondo della luce. Io ogni anno, da otto anni, faccio un viaggio in Grecia.
Ho riletto l’Iliade e l’ho fatta leggere integralmente ai miei studenti di Ragioneria in una versione tradotta da Rosa Calzecchi Onesti, che nel lavoro di traduzione dialogava con Cesare Pavese, autore che ho amato tantissimo.

Secondo te, bisogna rileggere i libri che si sono amati da ragazzi?
Sì, perché hanno un grande peso. Li ritrovi e ritrovi anche te stesso.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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