Intervista a Marinella Guatterini: “Scrivere di Danza”

26 marzo 2014

Anna Crespi ha intervistato Marinella Guatterini, autorevole e celebre saggista e critica di danza e balletto.

Marinella Guatterini - Foto di Alberto Calcinai

Marinella Guatterini - Foto di Alberto Calcinai

Hai figli?
Ho una meravigliosa figlia adolescente. Frequenta il liceo classico “Beccaria” e quest’anno raggiungerà la maturità. È molto appassionata e sensibile anche alle tematiche sociali: si dedica spesso al volontariato; dipinge, le piace la fotografia e medita sul suo futuro, forse medicina ma per giungere a psichiatria.

Sei saggista e critica di danza e balletto, scrivi sul “Sole 24 Ore”, su “Famiglia Cristiana”; hai tenuto lunghi corsi alla Sorbonne Paris III di Parigi, al DAMS dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, la più antica università italiana, e tieni conferenze ovunque e alla Scala. Hai scritto libri e svariati saggi; sei docente di estetica del balletto e della danza. Quando è iniziata la tua passione per la danza?
E’ iniziata nell’infanzia, muovendo incerti passi di balletto.

Come mai?
Mi piaceva il movimento; mia madre decise di farmi seguire un corso di danza accademica in un’oscura scuoletta vicino casa.

Ti piaceva?
No, per nulla! Ero piccola, avevo sei anni; si trattava di una scuola propedeutica. Non mi appassionai: trovavo estremamente noioso ripetere sempre gli stessi esercizi e ho interrotto drasticamente. Preferivo nuotare, sciare, andare a cavallo, mi piacevano gli sport competitivi e collettivi come la pallacanestro. Il lavoro sul corpo, tipico nella danza, è anche molto solitario. Prediligevo sport liberi e faticosi e mi sono rotta tutto quanto potevo: le dita, i legamenti delle ginocchia, le gambe, eccetera. Tutto durante l’adolescenza e la prima giovinezza, età per me splendide e inquiete.

Com’è proseguito il tuo percorso di studi?
Ho frequentato il liceo, l’Accademia, e pure l’Università, lettere, a Roma, seguendo le lezioni di etnomusicologia di Diego Carpitella. Molto duro ma altrettanto coinvolgente. A Milano, tuttavia, ho cominciato a ritrovare la passione per il movimento e la danza iniziando, su suggerimento di Luigi Pestalozza, allora mio docente di musica, una serrata ricerca su questi argomenti. Con un gruppo di colleghi, sempre durante gli studi, ho allestito mostre e audiovisivi a carattere coreutico-musicale in teatri e vetrine importanti come il Maggio Musicale Fiorentino. Invece per l’Università iniziai a fare ricerche antropologiche e coreutiche sulla Magna Grecia, sul Salento, dove le tradizioni dei tarantolati si sono mantenute sino agli anni Cinquanta del secolo scorso.

Quale Accademia hai frequentato?
L’Accademia di Brera. Non avevo una grande abilità manuale, e neppure nel disegno, ma ho avuto la possibilità di affinare molti aspetti teorici sull’arte ad ampio raggio e di fare ricerche su musica e movimento: ho realizzato mostre e cataloghi, aiutata da insegnanti che mi sono stati assai preziosi. Sono stata allieva del pittore Luigi Veronesi, grazie a lui ho fatto molte ricerche sul colore e sullo spazio scenico. Sono grata a tutti i miei docenti di indiscusso valore come Guido Ballo, per le arti visive, Francesco Leonetti docente di estetica, Alik Cavaliere, docente di scultura e, tra gli altri, pure Tito Varisco, già responsabile degli allestimenti scenici del Teatro alla Scala e la scenografa e costumista Luisa Spinatelli I loro insegnamenti mi hanno portato a riflettere e a lavorare su un doppio versante: appunto lo spazio scenico e il teatro da una parte e la musica e il movimento, dall’altra. A Milano sono tornata a frequentare anche corsi di danza moderno-contemporanea e di balletto, ma solo in modo amatoriale e spesso da osservatrice esterna. Un terzo versante, quello delle arti visive, e del loro approfondimento è stato per me importantissimo. Come preziosi sono stati gli esami dati all’Università di Roma, con semiotica, antropologia, sociologia e come ho già detto etnomusicologia con l’indimenticabile Carpitella.

Tu sei anche storico della danza?
Non mi ritengo uno storico, mi occupo di estetica della danza e del balletto. C’è una grande differenza tra le due discipline, anche se in ambito coreutico pochi riescono a coglierne la differenza.

In realtà qual è la tua disciplina specifica?
Mi occupo di analisi coreografica, della poetica che sottende il movimento, delle idee che il corpo esprime quando danza.

Vuoi spiegarmi meglio?
È una materia che incontra la storia, ma non è storia della danza, poiché entra nel vivo di ciò che la danza è, di come è o non è strutturata, dei suoi passi e movimenti attraverso i quali trapelano le varie concezioni poetiche ed estetiche dei coreografi e/o dei suoi autori.

Quel è la differenza?
Posso avvalermi di un paragone? È la stessa differenza che passa tra un musicologo, che studia la partitura, la sa leggere e capire “dal di dentro” e uno storico della musica che studia i periodi musicali e di solito conosce anche la musica, la sua notazione ma al limite può paradossalmente anche non conoscerla perché il suo oggetto d’analisi è un altro.

Tu studi l’essenza?
Si l’essenza della danza, la materia di cui è fatta; come il musicologo studia le note sulla partitura. Solo che nella danza, in specie quella contemporanea, non c’è testo, né partitura e dunque bisogna mettere in campo una conoscenza delle tecniche, dei modi d’espressione del corpo, dei metodi, degli stili o della loro negazione. Ma c’è molto di più: per questo è necessario avere una preparazione quanto più esaustiva possibile, a tutto campo, nelle arti performative ma non solo anche in filosofia. Personalmente mi sento sempre un’allieva; più che possedere la materia di cui mi occupo cerco di studiarla. Una strada senza fine.

Il coreografo come scrive?
“Scrive”, se così si può dire, nello spazio. E crea in molti modi: annota il movimento, fa disegni, usa il computer, oppure, come in passato, costruisce piccoli teatrini con figure. Ad esempio, Marius Petipa, il celebre autore del Lago dei cigni, della Bella Addormentata, dello Schiaccianoci, è noto per essere stato a suo tempo molto “tecnologico”. Preparava teatrini e muoveva nello spazio le figure danzanti di cartone che aveva artigianalmente creato. Se avesse avuto il computer lo avrebbe usato esattamente come hanno fatto, in altra epoca, alcuni coreografi. Penso soprattutto all’imprescindibile Merce Cunningham, ma anche a vari coreografi odierni, come il canadese Edouard Lock.

In genere i coreografi sono ballerini?
Nascono come ballerini, poi, però, di regola, abbandonano quasi subito la danza. La coreografia è un’arte estremamente complessa ed è altra cosa rispetto alla danza. Tra le due arti esiste una complicità, ma sono ambiti differenti. Per creare è obbligatorio avere senso musicale ma soprattutto possedere una progettualità spazio-temporale e fisica a tutto tondo. La coreografia è necessità poetica e scrittura nello spazio e nel tempo.

Il coreografo si occupa solo della danza?
Ormai non solo. C’è chi, come William Forsythe progetta “oggetti coreografici”, già esibiti in molte mostre eccellenti. Di solito il coreografo deve conoscere la materia e le dinamiche del corpo umano, avere qualcosa da esprimere nello spazio e saperlo trasmettere ai danzatori con cui lavora. Può usare la tecnologia, naturalmente. Oggi la figura del coreografo è comunque totalizzante: spesso crea scene, luci, costumi, tutto. Faccio un esempio: il coreografo cinese, Shen Wei, attivo da tempo a New York, ha allestito i Carmina Burana al Teatro di San Carlo, a Napoli. Si è occupato di ballerini, coro, orchestra; ha realizzato scenografie e ideato costumi: un’impresa titanica. Ma spesso abituale per quei coreografi davvero in possesso degli strumenti per creare una personale scrittura scenica in uno spazio anche non necessariamente teatrale.

Hai scritto anche libri?
Si, diversi, e molti sono ancora in progettazione. Ne ho presentato uno anche agli Amici della Scala. Due testi divulgativi, in particolare, sono stati e sono tuttora assai fortunati; avevano ed hanno l’obiettivo di chiarire questioni nodali riguardanti il balletto e la danza. Il primo di questi due testi è giunto alla sua sesta edizione ed è stato pure tradotto in lingua russa; ma entrambi sono libri “long-running”, non periscono perché l’editore mi consente di rivederli e aggiornarli di tanto in tanto. Tuttavia ora, per aver iniziato, nel 2010, un progetto nazionale dedicato alla memoria storica della danza contemporanea in Italia, ho sospeso momentaneamente la scrittura di altri testi, magari meno divulgativi, che tuttavia mi stanno molto a cuore.

Mi hai fatto conoscere un coreografo coreano nel 2004, Yong Min Cho.
È stato mio allievo, adesso lavora a Londra, la sua ricerca è interessante, è assai creativo.

Che tipo di danza fa?
Ha una formazione occidentale, si è diplomato al Corso di Teatrodanza della Scuola Paolo Grassi, ma mantiene il suo coté orientale, filosofico; porta nella sua danza i segni di una ritualità orientale, segnatamente coreana, e quest’anno si esibirà alla Fondazione Cini di Venezia, con un gruppo di danzatori professionisti del suo Paese.

Hai scritto un libro anche su questo argomento?
Questo tema rientra nei miei corsi, ma non ho scritto che qualche saggio al riguardo, ancora nulla di veramente approfondito. In questo mondo globalizzato tutto “confluisce”; credo che la cosa entusiasmante del mio lavoro, sia anche seguire, spettacolo dopo spettacolo, o ricerca dopo ricerca, le tracce di artisti coraggiosi e sperimentali, in taluni casi di fuoriclasse geniali, cui tutta l’arte, in generale, dovrebbe essere grata.

Gli avvenimenti della vita, il presente, si tramutano in danza o restano separati?
Nulla è davvero distaccato dall’espressione artistica: la danza, in particolare, si esprime attraverso il corpo, e il corpo è segnato, necessariamente avvolto nel contesto cui tutti apparteniamo. Akram Kahn, un artista indiano molto seguito e da tempo trasferitosi a Londra, evoca spesso nei suoi lavori e attraverso il movimento, i conflitti del suo paese, il Bangladesh. E di certo non è il solo.

La danza riesce a parlare del presente?
La danza contemporanea è spesso immersa nel presente; ma oserei dire che la danza in generale e pure il balletto, sono spesso stati immersi nel “loro” presente, cangiante di epoca in epoca. Lo strumento della danza è il corpo, e cosa più del corpo muta nel tempo e ne è l’espressione non in superficie, ma nell’interiorità? Vorrei tuttavia precisare che l’artista odierno non è contemporaneo perché vive oggi, ma perché possiede una progettualità contemporanea. Oggi si può essere artisti e creare seguendo ideali estetici del passato: con la morte delle avanguardie, e il crollo delle ideologie artistiche, direi che questa opzione non costituisce “reato”. Basta esserne consapevoli.

Anche nel tuo lavoro avverti la negatività, la crisi?
Insegno a studenti tra i 18 e i 24 anni e mi accorgo che nei giovani d’oggi c’è una sofferenza e un disagio che fino a dieci anni or sono non si avvertiva. Hanno un’inquietudine che si rivela nelle loro improvvisazioni, nel loro lavoro: il corpo, del resto, non mente mai, rivela quello che ognuno ha dentro. La danza attraverso la progettualità coreografica è l’arte che più di ogni altra può dare allo spettatore l’immediata percezione visiva di uno stato d’animo, di un ambiente, di un clima sociale, anche quando è danza pura.

Il balletto in Italia, nonostante la crisi, è ancora molto seguito?
Si è molto seguito, amato, richiesto nonostante l’Italia sia un paese istituzionalmente fragile per la danza e il balletto, a differenza di Francia, Belgio, Inghilterra, Olanda e metà dell’Europa, inclusa la Russia. In Italia i fondi per l’arte coreutica sono sempre a rischio, e non vi sono grandi supporti istituzionali. Forse non è ancora maturata pienamente la consapevolezza di quanto invece il settore sia ricco e amato. Oggi però pare affiorare una nuova volontà politica; si cerca di dare finalmente sostegno; il nuovo Ministero della cultura e il Mibact, in generale, si stanno muovendo in una direzione che potrebbe offrire sbocchi interessanti anche se oggettivamente in ritardo rispetto ad altre nazioni.

Cosa intendi?
Intendo dire che le residenze coreografiche assegnate, a esempio, in talune Regioni, come la Toscana, sono una buona iniziativa e pure le piattaforme regionali che intendono dare visibilità alla danza contemporanea italiana all’estero e in generale ai produttori nazionali. Quanto al balletto, vi sono problematiche più complesse: le fondazioni musicali faticano a continuare ad accogliere anche il settore coreutico e molti episodi di scarso dialogo tra le parti in gioco ha creato impasse molto negative. Il risultato potrebbe essere la chiusura di certi storici corpi di ballo, o il loro mantenimento in vita, puramente virtuale, sino all’esaurimento dei contratti a tempo indeterminato. D’altra parte in Italia c’è, o c’è stato, un trend orientato al dileggio della cultura e delle arti performative. Taluni ministri di governi del passato hanno sostenuto che “con la cultura non si mangia”. È tutto falso, come sosteneva anche Claudio Abbado. I nostri beni artistici, inclusi quelli viventi, devono essere rimessi in mostra e risplendere, e questo vale pure per il settore di cui stiamo parlando. Ballerini e danzatori italiani sono richiesti in tutto il mondo, sono veri portatori di cultura italiana fuori del nostro territorio. E i nostri coreografi hanno talento.

Esistono buone scuole di danza in Italia?
Certamente. Anche il più piccolo paese arroccato sui monti vanta una scuola di danza: molti giovani vogliono intraprendere questo cammino artistico forse. per spirito emulativo, per una passione nata semplicemente grazie alla televisione che in forme spesso bizzarre e falsamente competitive ha cominciato a promuovere danza e balletto. Il mezzo televisivo è importantissimo ma per ora sfruttato solo parzialmente. Quanto alla qualità dell’insegnamento, tuttavia, occorrerebbe verificare caso per caso. Impresa quasi impossibile: ma per fortuna una scuola si giudica dai risultati che dà, cioè dai frutti che ha saputo far crescere e maturare.

Ricordo che il libro che hai presentato agli Amici della Scala aveva per titolo ABC del balletto.
Sì, poi ho scritto anche L’ ABC della danza moderna e contemporanea, sempre per Mondadori. Sono proprio questi due testi divulgativi ad essere dei sempreverdi.

Di quali altri progetti ti stai occupando?
Dal 2010 al 2013 mi sono occupata di “Arte e Cultura Russa a Milano e Lombardia nel 900” un sito per l’Università degli Studi di Milano, curando l’intera sezione coreutica che parte dall’inizio del secolo scorso e si arresta agli anni Sessanta. Sempre dal 2010 guido invece il progetto ancora in corso Ric.ci: Reconstruction Italian Contemporary Choreography, dedicato alla memoria della coreografia contemporanea italiana con la ricostruzione di alcune storiche pièce della nostra “tradizione del nuovo”.

Perché proprio questo periodo nel progetto dell’Università?
Nelle intenzioni dei responsabili del progetto vi era sopratutto l’idea di rimettere in luce un patrimonio storico, senza arrivare necessariamente ai giorni nostri. In caso contrario il sito sarebbe ancora in corso… Comunque, la mia collaborazione nacque già nel 2009 quando allestii una mostra al Museo del Teatro alla Scala dedicata ai Ballets Russes, la celebre compagnia, nata nel 1909 ed esauritasi nel 1929 con la scomparsa di Sergej Djagilev, il suo fondatore. In seguito l’Università Statale mi chiese di curare per il loro sito l’ampio capitolo dedicato alla danza russa a Milano; dagli inizi del secolo mi sono spinta, nelle numerosissime schede analitiche su spettacoli, coreografi e compagnie, sino all’apparizione scaligera di Rudolf Nureyev.

Marinella Guatterini con i suoi studenti - Foto di Alberto Calcinai

Marinella Guatterini con i suoi studenti - Foto di Alberto Calcinai

Insegni anche alla Scuola Paolo Grassi?
Insegno e coordino il corso di Teatrodanza. È un lavoro faticoso ma di grande soddisfazione. Anche Francesco Micheli, Direttore Artistico del Macerata Opera Festival, si è diplomato alla Scuola Paolo Grassi; e così pure il regista Damiano Michieletto. La Scuola, da tempo diretta da Massimo Navone, ha formato e forma attori importanti, registi, drammaturghi, operatori teatrali e pure danzatori, performer e coreografi.

Come sono i tuoi studenti?
I miei studenti sono per lo più giovani brillanti e spesso di talento. Un gruppo appena diplomato, nel 2013, ha anche vinto un premio a Roma; e un allievo ha ottenuto il primo premio come coreografo. Ma tanti altri hanno creato gruppi anche all’estero, o si sono inseriti, dopo la Scuola, in compagnie italiane e straniere. Chi ha talento e disciplina fa strada e l’elenco di chi ne ha fatta è lunghissimo.

Che progetti hai con i tuoi ragazzi?
Lavoreranno con molti coreografi e registi come sempre. Il secondo anno si avvia all’allestimento di uno spettacolo al Teatro Grande di Brescia, diretto dal regista Marco Baliani, e come il terzo anno ha in serbo un atteso debutto con l’ottantenne Dominique Dupuy, il padre della danza contemporanea francese, che per loro allestirà una sua pièce degli anni Sessanta in giugno. Inoltre, sempre il terzo anno debutterà alla Triennale/Teatro dell’Arte in giugno con un coreografo americano Jonah Bokaer. molto richiesto nel mondo. Mentre il primo anno allestirà uno spettacolo dimostrativo con Julie Ann Anzilotti. E’ nostra abitudine che i corsi avanzati si cimentino subito con il palcoscenico e spesso lo fanno nei grandi festival , dalla Biennale Danza di Venezia a Bolzano Danza e TorinoDanza. L’anno scorso è stato presentato Vivo e coscienza al Mittelfest di Cividale, nei luoghi pasoliniani, un balletto di Luca Veggetti, recupero dell’unica pièce coreografica scritta, nel 1963, da Pier Paolo Pasolini. Quest’anno siamo stati invitati a festeggiare il venticinquesimo compleanno del “Florence Dance Festival”, in luglio, nel magnifico Museo fiorentino del Bargello con Hopper Variations una coreografia di Emanuela Tagliavia creata l’anno scorso per allievi solo al primo anno ed ora quasi giunti al termine del secondo.

Com’è il balletto di Pasolini? Triste, violento?
Assolutamente no, anzi. È pieno di speranza. Si intitola appunto Vivo e coscienza. È un inedito, scoperto nel 1998 tra le carte di Pasolini, pochissimi ne erano a conoscenza. Il regista e scrittore amava molto la danza e ha stilato un copione per una coreografia che avrebbe dovuto essere messa in scena dalla Biennale Musica con la musica del compositore e direttore d’orchestra Bruno Maderna. Pasolini pensava di affidare il suo copione a Maurice Béjart, o ad altro grande coreografo come Jerome Robbins. Aveva pensato proprio a tutto, ma poi quell’avventura così inedita anche per lui non è andata in porto, soprattutto per incomprensioni con Maderna.

È mai stato pubblicato?
Nella collana “Meridiani” di Mondadori è uscito, nel 2001, il libretto del balletto: è un frammento in quattro parti che prende avvio nel Seicento e giunge sino alla Resistenza: è un continuo dialogo tra coscienza e natura.

Quali caratteristiche deve avere un bravo ballerino?
I veri ballerini lavorano duramente, e dalla mattina alla sera. Per arrivare a un risultato non c’è nessuna scappatoia. Esistono, poi, fisici più o meno portati alla danza. I cinesi si sono affacciati da poco nel mondo del contemporaneo; nella loro tradizione vi è una ricca scuola di acrobazia e di formazione disciplinatissima al movimento. Sono spesso esemplari: non rinunciano a un training costante e duro.

C’è una nazione, oltre all’Italia, in cui ti piacerebbe lavorare?
In questo momento probabilmente sceglierei un paese africano: c’è ancora molto da scoprire. Ciò che arriva a noi è contaminato. Gli africani del Congo, del Sudafrica, solitamente si insediano in Europa: le loro tradizioni si mescolano alle nostre. Sarebbe interessante poter fare studi sul campo, osservare nei luoghi d’origine cosa è rimasto vivo nelle loro tradizioni. Tuttavia vivere a Parigi non mi dispiacerebbe, dopo l’intensa esperienza alla Sorbonne.

Il lavoro è la tua più grande passione?
Si, certo. Non credo si possa affrontare un lavoro come il mio senza passione, anche se talvolta la passione non basta. Questo lavoro è molto impegnativo soprattutto dal punto di vista della scrittura.

Cosa intendi?
È difficile scrivere di danza, è un esercizio ostile! La parola è contro il movimento, imbriglia il movimento e lo opprime.

Però tu riesci a parlare bene e con passione di danza.
Parlare di danza è forse più facile che scriverne…almeno in termini di analisi della stessa, scrivere di danza significa chiuderla in un solo significato, limitarla e inevitabilmente tradirla. Ma ogni traduzione è un tradimento. Solo che la danza nel suo essere polisemantica è davvero inafferrabile, anche nel tradimento….

È difficile anche scrivere della vita, non la afferri..
Certo, ma scrivendo della vita puoi ripiegare su fatti, cronache, biografie. In danza, come diceva George Balanchine, non ci sono né nuore, né cognate. E’ davvero un linguaggio visivo e interiore: è una sorta di vita al quadrato, ma può essere anche, e volutamente, puro artificio. O entrambe le cose.

Tu assomigliavi a tua mamma?
Assomiglio a mio padre, scomparso anni fa.

Com’è la qualità del Balletto alla Scala?
Ho notato in questi anni un crescente miglioramento, un bel salto di qualità. La preparazione dei ballerini è ottima.

Chi dirige ora il Corpo di Ballo e la Scuola di Ballo?
Il Balletto scaligero è diretto, ormai da alcune stagioni, dal maestro Makhar Vaziev, proveniente dal Balletto Kirov del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, la culla della tradizione accademica; mentre la Scuola di Ballo dal maestro Frédéric Olivieri, étoile francese all’Oéra di Parigi, al Balletto di Monte Carlo e già direttore del Corpo di Ballo scaligero.

Vaziev è bravo?
Sì, ritengo sia molto capace. La qualità dei ballerini è oggi più che apprezzabile; dal punto di vista tecnico ed espressivo la compagnia compete nel mondo e ha buone chance. Mi pare che Vaziev abbia fatto e stia facendo un lavoro prezioso per perfezionare il Corpo di Ballo, e per lanciare giovani talenti, forse per questo punta, con forza, sul grande repertorio. Questa stagione 2013-2014 ha già offerto qualche bella novità, come la Serata Ratmansky, dedicata al coreografo russo Alexei Ratmansky, richiesto ormai ovunque, e qualche scintillante ritorno, come Jewels di George Balanchine.

E l’Accademia di Ballo com’è?
La Scuola scaligera gode di ottima salute. Il maestro Olivieri vi si dedica con passione; a mio parere anche alla testa della Scuola, questo direttore continua a distinguersi per la scelta dei programmi artistici: classici, neoclassici ma non solo. Di recente abbiamo apprezzato un freschissimo e béjartiano Gaîté parisienne e pure un silenzioso e interessante, anche se incompleto, Unsung di José Limon.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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