Intervista a Franco Pulcini

3 marzo 2014

Abbiamo intervistato Franco Pulcini, musicologo, saggista e scrittore, Direttore Editoriale del Teatro alla Scala e docente di Storia della Musica al Conservatorio “G. Verdi” di Milano.

Franco Pulcini

Franco Pulcini

Tu insegni al Conservatorio. Quale materia?
Insegno “Storia della Musica”, che è una materia complementare, ma importante. Cerco soprattutto di farla amare, al di là degli interessi professionali degli alunni: ai cantanti spiego la musica sinfonica, ai pianisti l’opera. Alla Scala, dove lavoro da oltre otto anni, ci sono almeno dodici o tredici musicisti che hanno studiato con me, soprattutto in orchestra e nel coro. È una grande soddisfazione. Una volta ho incontrato Daniele Gatti e si ricordava che gli avevo fatto un esame sull’Otello di Verdi. Sono stato giornalista, saggista, musicologo, traduttore, autore di documentari, ma essere stato insegnante è stato il motivo dominante della mia vita. È la cosa più importante che penso di aver fatto per la società.

Anche quando tu parli a “Prima delle prime”, le tue introduzioni sono sempre molto chiare.
I corsi che tengo al Conservatorio cercano di essere “corsi di educazione sentimentale alla musica”: far capire lo spirito dei compositori, cosa c’è dietro le note. Ci sono musicologi più razionali, che parlano della musica in maniera, secondo me, un po’ troppo tecnica. Io cerco di affrontarla “umanisticamente”, avvicinando chi ascolta all’animo dei musicisti.

Tu apri ai giovani la loro mente?
Molti hanno il cervello più aperto e attrezzato del mio: e non solo Daniele Gatti… A volte però riusciamo a insegnare cose anche a persone che, su certi argomenti, ne sanno più di noi. Anche Filippo Del Corno, altra mente sopraffina, è stato mio allievo. Le principali soddisfazioni della mia vita le ho avute da chi ha studiato con me e che da me ritiene di avere avuto degli insegnamenti interessanti, soprattutto da un punto di vista umano.

Tu hai insegnato, e dal tuo insegnamento i tuoi studenti hanno intrapreso una carriera. Coloro che sono “arrivati”, e che tu hai ritrovato, ti hanno insegnato a loro volta qualcosa?
Nell’insegnamento c’è sempre uno scambio. Gli allievi mi danno molto con gli interrogativi che si pongono quando parliamo d’arte, toccando tutte quelle parti che riguardano la vita, soprattutto interiore. Inoltre, io ho sempre cercato di insegnare in modo il più possibile divertente, persino buffo. Se i giovani non trovano interessi vivi, non memorizzano. Se ci divertiamo, se ci appassioniamo a qualcosa, la ricordiamo con maggiore facilità.

Quanti anni hanno i tuoi allievi?
Dai 10 ai 50 anni, ma in massima parte fra i 15 e i 18. Sono tutti corsi molto differenti tra loro, dal canto gregoriano alla musica contemporanea. Ho avuto anche bambini prodigio, come la pianista Alice Baccalini, della cui madre ero pure stato insegnante. Forse con la riforma della pensione Monti-Fornero, finirò per insegnare anche ai figli di Alice, visto che sono ancora in cattedra… Mio allievo è stato Daniele Rustioni che ha diretto alla Scala Un ballo in maschera e Il trovatore. Anche Francesca Dego, la violinista: ha iniziato a studiare con me Storia della Musica quando era ancora molto piccola ed era estremamente preoccupata perché circondata da compagni molto più grandi di lei; prendeva appunti in numerosi piccoli quadernetti, che alla fine dei tre anni di corso saranno stati una pila alta come una colonna. Era naturalmente bravissima. Questo è il mio lavoro ed è stato la mia vita. In oltre tre decenni, non ho mai trascurato un solo giorno d’insegnamento per fare altro, neppure quando ero pressato da urgenze editoriali o televisive. Solo l’anno scorso, convalescente da un’operazione, ho lavorato nella biblioteca del Conservatorio, ma quest’anno ho già parzialmente ripreso a insegnare.

A quanti anni hai iniziato a insegnare?
Ho vinto il concorso al Conservatorio per titoli artistici, o meglio culturali, quando non ero ancora laureato, a 23 anni. Avevo iniziato a pubblicare articoli di musicologia mentre ancora studiavo, su incoraggiamento di Massimo Mila, intellettuale esemplare e mio mai dimenticato insegnante: al concorso a Milano mi hanno fatto passare avanti a 50 laureati. Poi, liberatosi un posto ad Alessandria e successivamente a Milano, quando avevo 25 anni ho iniziato a insegnare, senza interrompere mai la carriera.
Il fatto di dover spiegare e insegnare ai ragazzi mi ha anche condizionato da un punto di vista della scrittura: i miei libri, gli articoli, sono sempre stati concisi, non complessi, per mantenere una capacità e una velocità di comunicazione che potesse andare bene anche ai giovani, che si spazientiscono in fretta per le lungaggini.

A proposito di Massimo Mila, desidero raccontarti una storia divertente che mi è accaduta con proprio con lui… Come sai, questo musicologo abitava a Torino ed era sposato. Quando la moglie ha saputo che mi sarei incontrata con lui, è uscita di casa, lasciando un imbarazzatissimo Mila a ricevermi da solo. Io, innocente, sono giunta a casa sua leggera e contenta di stare un po’ con lui. Infatti lo conoscevo solo di fama. Impacciatissimo, Mila tentava di preparare del tè e di servirmelo su un vassoio. A quel punto io e Massimo abbiamo cominciato a ridere come due bambini: ci divertivamo a raccontarci storie, aneddoti… eravamo due giovani che si conoscevano da sempre…
La fine della storia: quando la moglie è tornata a casa, ha trovato Mila felice, entusiasta dell’incontro; tanto che nei giorni successivi l’ha “perseguitata” dicendole: “Cosa hai perso con quel tè!…”. Questa seconda parte mi è stata raccontata dalla moglie, che terminava dicendomi: “Cosa ho perso con quel tè…”.
Ma perdona la divagazione. Torniamo alla nostra intervista. Quali libri hai scritto?
Oltre a una decina di album illustrati per la De Sono, ho scritto quattro libri. Il primo è una Storia della musica italiana, dalla nascita dell’opera ai giorni nostri. Era inserita in una grande Storia d’Italia curata da studiosi importanti. Poi, nel 1988, ho pubblicato un libro su Dmitrij Šostakovič; mi ha dato molta soddisfazione, perché tanti anni dopo ho incontrato colleghi russi che mi hanno chiesto come ero riuscito a comprendere così bene un mondo tanto lontano, di cui allora in Occidente si parlava in modo confuso. Ho risposto che l’avevo compreso tramite la musica. Una delle principali studiose di Šostakovič, Marina Sabinina, spesso citata anche nelle lettere del grande musicista, mi ha scritto un bigliettino che conservo incollato in un suo libro in cui si complimentava per aver dimostrato di capire cose molto complesse e raffinate sulla sua musica. Anche la vedova di Šostakovič, Irina Antonovna, ha parlato pubblicamente bene del mio libro, di cui si era probabilmente fatta tradurre alcune parti.

Eri già stato in Russia?
Ero stato in periodi diversi per studiare il russo. Ci sono attualmente dei libri russi che citano parti del mio libro, che è stato di recente ristampato!

Franco Pulcini assieme a Gastón Fournier Facio

Franco Pulcini assieme a Gastón Fournier Facio

Come facevi a comprenderlo e interpretarlo?
Ho letto buona parte della letteratura esistente su questo musicista, a volte un po’ reticente: i russi, si sa, per ragioni storiche sono molto prudenti e circospetti, oltre che gelosi delle loro verità; ho compreso cose ulteriori, ho scoperto citazioni musicali nascoste cui i russi non erano arrivati, e proprio queste vengono menzionate. Ho avuto grande amore per la sua musica e ho compreso profondamente il suo animo, probabilmente perché anch’io, come lui, ho una visione del mondo un po’ pessimistica.

Sei un po’ drammatico?
Non direi. Ho scarsa fiducia nell’uomo in generale. Sono una persona solitaria; non amo frequentare la società. Se devo scegliere tra lo stare a casa o andare in un posto dove c’è gente, preferisco stare a casa…
Nel ’93 ho pubblicato un altro libro che mi ha dato grande soddisfazione, su Janáček. Questo, andato esaurito da anni viene ripubblicato in edizione ampliata in queste settimane per l’editore Albisani di Bologna, e verrà presentato al prossimo salone del libro di Torino. Per approfondire l’autore avevo vissuto un anno nella Cecoslovacchia occupata dai russi, grazie a una borsa di studio del ministero degli affari esteri; non è stato difficile ottenerla: nei primi anni ’70, dopo i carri armati del ’68, a Praga non ci voleva andare nessuno… Quando ho iniziato a occuparmene, era già un musicista noto, ma non come lo è ora. Lissner ha programmato alla Scala la serie delle sue opere maggiori. Io ho scritto il primo libro completo sulla vita e le opere Janáček in lingua italiana e ho contribuito alla conoscenza di questo autore che poi è stato molto amato ed eseguito anche in Italia. Gli studiosi arrivano prima alla comprensione delle opere rispetto al pubblico: è proprio questo il nostro compito, spiegare agli appassionati i valori musicali e artistici. Anche Šostakovič era conosciuto male fino a trent’anni fa, e non amato, né compreso, né eseguito tanto come lo è ora.
Poi ho scritto un libro-intervista col cantautore Franco Battiato, nell’epoca in cui si cercava di comprendere i rapporti tra musica leggera e classica, e di capire se erano due mondi che potevano comunicare.

Sono due mondi che possono comunicare?
Poco. Non sempre. Ma è comunque interessante capire il problema.
Ho fatto infine per tanti anni televisione: assieme e Piero Maranghi ho lavorato al canale Classica di Sky. È stato molto importante da un punto di vista divulgativo: facevamo documentari, interviste. Naturalmente mi ha molto distratto dallo scrivere libri. Solo di recente ho lavorato con Silvia Barigazzi all’aggiornamento del libro di suo padre Giuseppe La Scala racconta per l’editore Hoepli.
Nella mia vita ho scritto anche qualche romanzo, di cui uno pubblicato di recente da un editore online (www.edizioniesordienti.com), che è un sanguinario noir psicologico un po’ screanzato di oltre quattrocento pagine che si svolge soprattutto per mare, in barca a vela, e s’intitola Il maltempo dell’amore. Anche questo titolo mi sta dando grandi soddisfazioni, perché, nelle vendite su Amazon, è primo in classifica da sei settimane, su oltre millecento titoli della sezione gialli-thriller-noir. Oltre che in ebook, esiste anche in cartaceo, ma va ordinato su Amazon e non si trova in libreria, a parte alcune specializzate come la “Libreria del mare” di via Broletto 28, non lontano dalla Scala. Ma questo non ha niente a che fare né con la Scala, né con la musica.

Tu curi anche tutti i libretti di sala alla Scala…
Alla Scala sono direttore editoriale. Nel corso di tutta la mia carriera ho sempre insegnato in Conservatorio: lo faccio da 35 anni. Poi, parallelamente, per qualche anno ho fatto il critico-giornalista, per 10 anni ho scritto libri, per altri 10 mi sono occupato di divulgazione musicale in televisione, e infine da quasi 10 anni lavoro alla Scala. Pensavo che dopo la televisione mi sarei ritirato, che sarei rimasto a casa a leggere tutti i libri che ho comprato e mai letto… Invece Lissner mi ha chiamato. Sono molto contento e con lui ho sempre avuto un ottimo rapporto. Il mio contratto è stato rinnovato fino alla fine del 2015 anche con il nuovo sovrintendente Pereira.

Con Lissner collaborate, discutete di musica.
Sporadicamente. Diciamo che ci si intende con poche parole. Lissner è molto concentrato sulle programmazioni. Per quanto riguarda la questione editoriale, mi ha lasciato libertà di fare come ritenevo meglio. È d’accordo con me sul fatto che le traduzioni dei libretti delle opere siano molto importanti, anche perché vengono proiettate nei sottotitoli. Ho posto moltissima attenzione a questo tema; in molti casi le ho fatte rifare, in modo che funzionassero bene e che, grazie alla loro concisione, si riuscissero a leggere agevolmente anche durante l’esecuzione. Devono essere essenziali, come diceva Verdi: poche parole, ognuna con un preciso significato. Molte volte alcuni degli spettacoli che hanno avuto grande successo avevano anche una bella traduzione, stringata, coinvolgente e commovente.

Franco Serpa, Quirino Principe si sono occupati di traduzioni…
La nuova traduzione del Lohengrin, la scorsa stagione, l’ha fatta Quirino Principe; Serpa ha tradotto per i nostri programmi tutto L’anello del nibelungo e la sua versione italiana è già stata ripubblicata da Il Saggiatore. Naturalmente questi grandi studiosi devono essere ingaggiati con anni d’anticipo per potersi dedicare a nuove traduzioni di Wagner così importanti e impegnative. È un lavoro che ho programmato e seguito con grande soddisfazione.
Quirino Principe è stato mio collega al Conservatorio, e ha approvato che venisse a studiare con me suo figlio Renato, ottimo musicista. Quirino è uno studioso molto preciso. Se un aggettivo in tedesco indica due cose, lui vuole mettere due termini, per far comprendere meglio: ma questo allunga il testo. Per il Lohengrin abbiamo concordato di rendere la traduzione più essenziale. Sono traduzioni perfette, che resteranno per almeno altri 20 anni nella cultura italiana. Ho la soddisfazione di averle commissionate io.
Per la Scala ho realizzato personalmente dal ceco alcune traduzioni dei libretti di Janáček: La volpe astuta, Da una casa di morti e Káťa Kabanová. Ho cercato di farle nella maniera più emotiva possibile; la traduzione di Káťa Kabanová mi ha coinvolto così tanto che mi scendevano le lacrime nel colletto della camicia mentre scrivevo. Poi, tutta l’emozione che ho messo nella traduzione l’ho ritrovata quando c’è stato il meraviglioso spettacolo di Robert Carsen, quello con l’acqua in palcoscenico, che molti ricordano ancora. Spero di aver partecipato al successo con la mia traduzione…

Il lavoro alla Scala è molto importante per te?
Sicuramente la Scala fa spettacoli che spesso sono meglio eseguiti ed allestiti che in altri teatri. Si vive una realtà artistica molto alta. La Scala è aperta al mondo e anche al turismo; io cerco di fare programmi di sala non troppo complicati. Sono piccoli libri d’arte con molte illustrazioni; non inserisco articoli troppo lunghi e difficili. Spesso in altri teatri, come La Fenice di Venezia, si propongono saggi più impegnativi. Li ammiro molto, ma per me non sono adatti al grande pubblico di appassionati della Scala.
A volte ho l’input anche dalle maschere del teatro. Ad esempio è aumentato il numero degli spettatori russi e abbiamo iniziato a pubblicare il testo del soggetto dell’opera anche in russo.

Secondo te il pubblico italiano capisce le esigenze internazionali del Teatro?
Sicuramente tutti dovrebbero sapere che la Scala è un orgoglio italiano, ma anche un Teatro del mondo.

Milano è molto polemica. Ci sono sempre schieramenti per una parte o per l’altra.
Devo dire che sono fuori da queste rivalità. Il nostro ufficio è anche molto appartato.

Per volere tuo?
Intendevo logisticamente. Abbiamo l’esigenza di stare al pianterreno: quando arrivano le pubblicazioni è più comodo! Già con Fontana era stata prevista quella posizione. Abbiamo un ufficio molto piccolo.

Troppo piccolo?
Forse. Soprattutto siamo in pochi: in tre. Io sono il “direttore editoriale”; poi ci sono due redattori, Giancarlo Di Marco e Anna Paniale, molto bravi, agguerriti e ben organizzati. Tutti i manifesti, i programmi di sala, piccoli e grandi, le locandine, le agende, eventuali libri, calendarietti, pubblicazioni d’ogni genere, tutto viene seguito da noi e dai collaboratori esterni. Poi capita che lasciamo qualche errore e ci dispiace. Noi tre lavoriamo anche con tutti gli altri uffici. Spesso Carlo Maria Cella, capo dell’ufficio stampa, mi chiede di collaborare con loro e ogni tanto scrivo testi che vengono poi inseriti nel sito del teatro. Aiuto anche il marketing. Tengo le conferenze di presentazione per le serate Under30. Tutti quelli che hanno bisogno di un aiuto di carattere musicologico chiedono il mio supporto. Molti vengono a sollecitare consigli, anche dal ballo, per ricerche musicali e nuovi progetti drammaturgici: sono considerato una persona informata dei fatti culturali! In Germania questa professione la chiamano “Dramaturg”.

Questo porta via molto tempo?
Molto… Inoltre la Scala, proprio per la sua importanza culturale, finisce per essere un luogo al quale tutti si rivolgono per motivi disparati. Quando ero responsabile anche dell’archivio fotografico mi è arrivata la richiesta di un albergo turco che voleva esporre decine di foto di Roberto Bolle: li ho mandati da lui, perché lo sfruttamento di un’immagine non ci compete. Non hai idea delle richieste che ci arrivano, dalle tesine di maturità ai semplici curiosi disinformati.

Anche degli studiosi?
Sì, per fortuna. Spesso ci chiedono materiali per le loro pubblicazioni; ci sono studenti delle varie università che si rivolgono a noi per ottenere documenti storici, vecchie pubblicazioni, traduzioni, fotografie. Questo ci porta via molto tempo, ma noi abbiamo una funzione culturale e non la possiamo dimenticare. Non siamo un’impresa privata, cerchiamo di rispondere a tutti. Io, poi, ho un debole per l’insegnamento, quindi dò il mio aiuto a quasi tutti, indifferentemente. La Scala, anche nel modo di porsi nei confronti di chi chiede solo informazioni, deve essere all’altezza della sua fama. A volte si stupiscono di tanta disponibilità, anche se capita di trovarci investiti da una valanga di richieste non tutte giustificate, e soprattutto reperibili anche altrove.

Si rivolgono anche a Fournier?
Certo. Gastón Fournier è una persona estremamente garbata e disponibile, oltre che preparatissima. Per questioni di carattere musicologico, però li mandano da me. A volte anche gli altri teatri mi chiedono consigli: quella dei teatri è una grande famiglia.

Lo è ancora?
Sì, e secondo me si vuole abbastanza bene. Dobbiamo sostenerci. In questo momento di carenza di fondi, in modo particolare.

La tua famiglia si interessava alla musica?
Mio padre era un ingegnere, ma nella sua famiglia erano tutti musicisti dilettanti. Sua sorella Tina Pulcini era invece una cantante professionista, ma ha smesso di cantare prima della guerra; tutti gli altri fratelli suonavano degli strumenti. Mio nonno paterno amava l’opera sopra ogni altra cosa e sua moglie, che faceva la maestra, suonava il mandolino. Mio padre però non ha mai avuto grande passione per la musica classica, anche se la conosceva abbastanza; pensava inoltre che la professione del musicista non fosse importante. Aveva la mentalità del dopoguerra: bisognava lavorare sul concreto per ricostruire l’Italia. Mia mamma, invece, suonava il pianoforte. Mio padre ha fortemente contrastato la mia passione per la musica. Però, spesso, le vocazioni, quando sono avversate, si rafforzano.

Tu eri ribelle?
Non molto. Ero piuttosto un astuto mediatore, difficile da piegare.
Sono uscito di casa dicendo che mi sarei iscritto a ingegneria, e invece mi sono iscritto a lettere per studiare la Storia della Musica con Massimo Mila. Mio padre non mi ha parlato per qualche mese.

Tu hai fratelli o sorelle?
Ho una sorella. Lei ha preso dalla famiglia di mia madre. Mio nonno materno era mezzo inglese, perché aveva vissuto a Londra fino a 18 anni. È il primo autore di una grammatica della lingua inglese, edita da Petrini di Torino: si chiamava Dante Milani, ma non l’ho mai conosciuto. Ha insegnato per molti anni al magistero di Torino. Anche mia mamma era insegnante di inglese all’università, assistente di Giorgio Melchiori. Poi, quando siamo nati io e mia sorella, ha iniziato a insegnare al liceo, per avere il cosiddetto ruolo e non essere precaria. Ha anche tradotto una versione italiana di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Mia sorella, che suonava il pianoforte meglio di me, è docente ordinaria di inglese all’università di Torino ed è autrice di libri di linguistica. Tutti anglisti, da tre generazioni.
Io, invece, avendo un carattere un po’ particolare, non ho mai imparato molto bene l’inglese: parlo meglio il tedesco. Inoltre non sono mai stato né in America, né in Inghilterra. Diciamo che non ho mai avuto l’occasione!

Se non quelle inglesi, a quanto pare hai avuto almeno le influenze musicali della famiglia..
Quando ho iniziato a insegnare in Conservatorio e ho trovato la mia strada, anche mio padre è stato contento. Il suo timore era che io non trovassi lavoro inseguendo la mia passione, con la frustrazione che ne poteva seguire e la sua necessità di mantenermi per anni.

Anche tua moglie Rita ama la musica?
La ama tantissimo e la capisce spesso meglio di me, come è solita dire in modo scherzoso e provocatorio. Ma soprattutto ama la letteratura e la poesia. È una lettrice infaticabile ed estremamente arguta. Oltre ai classici – tutti – legge anche molti degli ultimi libri pubblicati. Ma con estrema selettività, perché è alquanto critica. Ora lei è in pensione; è stata insegnante delle scuole elementari.
La passione che abbiamo in comune, io e mia moglie, non è solo l’arte, ma il mare: andiamo in giro in barca a vela da soli. Siamo anche un po’ spericolati! Partiamo dalla Liguria e andiamo in Corsica, in Sardegna: a volte ci prendiamo anche il brutto tempo per mare: temporali, vento forte. Però, uno che vive alla Scala impara a “barcamenarsi”…

Cosa altro impara chi lavora alla Scala?
Alla Scala si vive in perenne stress da urgenza o da imprevisto. Chi è abituato ai ritmi e alla vita della Scala può anche andare in barca a vela con equipaggio ridotto, perché è abituato alle tempeste quotidiane durante l’anno!
La Scala è un teatro difficile. Ogni teatro è un luogo di passioni, quindi di grandi amori, grandi odi, terribili rivalità e conflitti con artisti sempre tesi e nervosi per le reazioni incontrollabili del pubblico. Noi dell’ufficio edizioni, però, non possiamo partecipare alle contese, perché ci sono troppe scadenze da rispettare…

Dicevi che sei alla Scala da una decina d’anni…
Sono stato chiamato da Lissner oltre otto anni fa: aveva bisogno di un musicologo esperto. Lissner non parlava ancora italiano; io mi ero preparato un breve discorso in francese per presentare me e il mio eventuale lavoro: trovare persone che sapessero scrivere seriamente, ma anche con semplicità; predisporre nuove traduzioni, eccetera. Mi ha ascoltato con attenzione e poi mi ha detto “C’est bien”. Io penso, per fortuna, di essere abbastanza benvoluto all’interno della Scala, e non solo dal Sovrintendente, così come lo sono stato dai miei allievi al Conservatorio.

Con Lissner vi siete occupati anche dei programmi di sala?
Con Lissner abbiamo cominciato, nei programmi di sala, a parlare di più degli spettacoli da un punto di vista visivo: mettiamo note di regia, spiegazioni fatte dagli stessi artisti. Uno di questi è Robert Carsen, che conosco bene, professionalmente. Lui non ha mai tempo per scrivere; viene nel mio ufficio, mi racconta i suoi spettacoli; io scrivo i testi, lui li corregge con attenzione e poi li pubblichiamo a suo nome, perchè ovviamente i contenuti sono suoi. Una volta mi ha telefonato da Parigi il giorno di Natale, mentre ero in barca, per farmi aggiungere una mezza paginetta di idee a un testo su I racconti di Hoffmann… Ne abbiamo fatti così tanti, di questi testi, che mi ha chiesto il permesso di pubblicare una serie di scritti fatti per la Scala sulla rivista francese Avant-scène. I suoi scritti ce li chiedono da tutto il mondo: è un’altra delle tante soddisfazioni della Scala, che li offre al pubblico straniero “per gentile concessione”.

Sei una persona calma?
Sono calmo perchè non c’è altra possibilità al mondo; bisogna essere pazienti, altrimenti non vieni a capo di niente. Sono calmo, ma non sono freddo e indifferente. A volte sono sornione o faccio il finto tonto.

Hai imparato qualcosa da Lissner?
Ho imparato tante cose da lui, devo dire. Ti faccio un esempio: lui ha la capacità di essere sbrigativo, ma sarebbe meglio dire efficiente. In genere mi dà una risposta prima che abbia finito di formulare la domanda. Mi ha detto di sì in ascensore, pur scendendo a un piano diverso dal mio, al progetto del libro fotografico su Claudio Abbado alla Scala per i suoi 75 anni, prima che tornasse a dirigerci. Ha volte ho fatto con lui delle riunioni di due minuti in cui gli illustravo una decina di problemi, avendo risposte precise su tutto, comprese quelle in cui mi diceva di decidere io. Lui ha un gesto particolare, fatto con le due mani, come se sfiorasse un muro verticale, che accompagna una sua frase molto spesso ripetuta: “Dite al Sig. x che la nostra risposta è: NO”. (Il gesto con le mani lo fa sul NO).
Mia moglie mi ha parlato di un libro che si intitola Dire di no: una delle cose che ho imparato alla Scala è saper dire, quando serve, di “no”. Con estrema semplicità e naturalezza.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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