Intervista a Carlo Bertelli

24 giugno 2014

La nostra presidente Anna Crespi ha intervistato Carlo Bertelli, ex soprintendente di Brera e grande amico degli Amici della Scala. Uno dei protagonisti del periodo in ci restaurammo i bozzetti e i figurini del Teatro alla Scala.

Carlo Bertelli

Carlo Bertelli

Il nostro primo incontro è avvenuto alla Pinacoteca di Brera. Mi avevi dato un appuntamento su mia richiesta. Una volta accomodata, mi hai rivolto una domanda diretta: “In che cosa posso esserle d’aiuto?”. Sono stata subito franca con te e ti ho risposto: “Desidero il suo permesso perché gli Amici della Scala vogliono restaurare, catalogare, inventariare i bozzetti e i figurini del Teatro alla Scala con il consenso del Sovrintendente. Solo lei ha diritto di darmi il permesso sia quale Ispettore dell’Istituto Centrale per il Restauro, sia come Soprintendente di Brera”. La cosa andò a buon fine e altri teatri seguirono l’esempio. Restaurammo con l’Opificio delle Pietre dure di Firenze.
Mi piaceva aprire questo nostro dialogo con un ricordo… Ma ora vorrei rivolgerti qualche domanda.
Iniziamo dai tuoi studi. Nel tuo indirizzo artistico, sei stato indirizzato anche dalla tua famiglia?
Mio padre era professore e mia madre insegnante. Soprattutto mio padre, ma anche mia madre, mi ha trasmesso una forte passione musicale. Lui era un wagneriano convinto; sono stato avviato ad apprezzare l’arte fin da bambino. Vedevo musei, le città di cultura. La mia famiglia viveva a Roma, ma non era romana: viaggiavamo spesso a Venezia e nel Nord Italia. I miei cugini abitavano a Venezia; è una città che amavo molto e che è stata fondamentale per la mia formazione.

Nella tua vita è tutto connesso. Hai cominciato i tuoi studi a Roma…
Anche la mia carriera.

E poi?
Ho studiato anche a Londra al Warburg Institute.

Sei stato ispettore all’Istituto Centrale del Restauro e sovrintendente a Brera.
Sono stato all’Istituto Centrale del Restauro, negli anni in cui era direttore Cesare Brandi. Poi sono stato direttore della calcografia, delle stampe. In seguito sono passato a Brera.

Di cosa ti sei occupato a Brera?
Di restauri: del Cenacolo, di Piero della Francesca, del Ciborio di Sant’Ambrogio, di Rubens… ho fatto una gran quantità di restauri a Brera.

Cos’è il restauro per te? Quando ordini, studi un restauro cosa provi, cosa senti?
Il senso della conoscenza: attraverso il restauro si capisce come un’opera è nata. Quali sono stati i problemi che l’artista ha affrontato, le soluzioni tecniche, il rapporto tra il progetto e la realizzazione… Anche la consapevolezza di compiere un’operazione che deve essere fatta in coscienza, nel modo più sicuro e migliore: è come un’operazione chirurgica. Si deve avere la prudenza, il dubbio su se stessi e il rigore. Se si parte convinti di sapere tutto, si sbaglia. Bisogna che l’opera d’arte ti parli, ti dica qualche cosa di quello che è, che avrebbe voluto essere e che è stata… Bisogna avvicinarsi con il più grande rispetto. Come una partitura, l’opera d’arte va letta. Non si deve partire con pregiudizi e presupposti: altrimenti non si capisce niente. Molte volte sono stati fatti disastri.

È come riportare in vita, far nascere. Bisogna essere freddi come un chirurgo?
Anche nel restauro bisogna essere freddi. Nel restauro architettonico l’intervento è più evidente: basti pensare ai restauri dell’Ottocento in cui si è voluto ricondurre un edificio a un certo stile, ritenendo che fosse quello giusto. E così sono state distrutte architetture barocche, trasformandole in medievali. Questi sono i pregiudizi del restauro.

Qual è stata la tua emozione più grande?
Il restauro del Cenacolo è stata un’emozione profonda. Trovare il vero Leonardo nel Cenacolo sotto tutto lo strato sporco e le ridipinture, anche se molto sciupato. Scoprire il profilo di San Matteo, scoprire com’era l’orecchio, il naso; scoprire in San Filippo come la luce entrava tra i capelli e li illuminava. È stato come essere vicini a Leonardo quando dipingeva. Un’esperienza indimenticabile.

La consapevolezza e lo studio profondo ti fanno entrare nel quadro; il restauro ti mostra cosa accade all’opera, la libera dal brutto. L’opera diventa quasi una tua creatura.
La sento mia ogni volta che la rivedo: so che traversie ha avuto, so che cosa si è fatto per salvarla. Si rimane sempre affezionati a un dipinto che si è contribuito a salvare, con cui si ha avuto un immediato contatto fisico.

Hai scoperto l’arte attraverso i tuoi viaggi?
Tutti gli storici dell’arte, in fondo, amano il viaggio, sono cosmopoliti.

Com’è stato il tuo percorso professionale?
È stato molto vario: ho lavorato ai restauri di Assisi, San Sepolcro, Istanbul.

Sei stato uno studioso che lavora.
Molti miei colleghi hanno avuto una carriera solo accademica. La mia carriera è stata di pratica e di studio.

Sei stato anche redattore dell’Enciclopedia dell’arte antica.
Ho lavorato con un grande personaggio, che è stato anche mio maestro: Ranuccio Bianchi Bandinelli.

È stato il tuo unico maestro? O ne hai avuti molti?
Anche Roberto Longhi, a cui ero molto legato, è stato mio maestro. Ma Bianchi Bandinelli è stato fondamentale per me. Parlavamo ogni giorno: abbiamo lavorato insieme e discutevamo dei problemi d’interpretazione dell’antichità. Era interessante: io mi occupo di arte medievale e rinascimentale, lui invece era archeologo. Capire l’arte antica è importantissimo: è da lì che si parte e si arriva fino al ventesimo secolo.

Che cosa sono per te le icone?
Sono soprattutto una scoperta. Infatti, ho scoperto le prime icone romane. Non si sapeva che a Roma ci fosse una tradizione di icone. Lo scoprii attraverso il restauro un’icona dell’ottavo secolo, in Santa Maria in Trastevere: una grandissima icona, fortemente ridipinta ed eseguita con una tecnica insolita, ad encausto. Io l’ho studiata con grande amore, capendo la sua iconografia, le sue scritte…

In un certo modo sei anche archeologo…
Ho scoperto, in seguito, altre icone a Roma, e ho capito come queste siano state importanti per il Rinascimento. Sicuramente in tutta Italia, che è stata bizantina, ci sono state icone: ma a Ravenna non ne sono conservate; a Milano c’è il ricordo di un’icona che non esiste più. A Roma invece ne sono rimaste alcune.

Perché sono sparite?
È cambiato il culto, la sensibilità. Al Castello Sforzesco c’è un rilievo con la processione della Madonna dell’Idea, un’icona molto venerata a Milano, ma che ora non c’è più.. Altre icone sono conservate al Sinai, nel mondo copto e orientale e in Italia Meridionale, ma queste sono tarde. Le più antiche sono a Roma e al Sinai. Aprono un capitolo importante per la storia dell’arte.

Perché sono importanti per te le icone?
Nel corso della tendenza “talebana” del settimo secolo, l’imperatore ha deciso che le immagini non dovevano più essere venerate e sono andate distrutte. Le icone rimaste sono l’unica testimonianza della pittura antica, su tela o su tavola. Sono commoventi e bellissime.

Sei una persona timida?
Credo di sì.

I grandi sono spesso timidi! Questa timidezza ti aiuta?
La timidezza da una parte è un guscio, dall’altra è un filtro: ti difende dalle persone di cui ti importa poco, dagli incontri fastidiosi…Ti permette di filtrare chi vuoi vedere e chi non vedere, le manifestazioni a cui vuoi partecipare…

Perché sei rimasto affascinato dall’arte medievale e rinascimentale?
Per la loro complessità. Ma se io studiassi il Settecento lo troverei ugualmente interessante. Ho studiato Piranesi, ad esempio, ed è un artista complesso e profondo: ha una personalità diversa dalla mia, affascinante.

Tu hai curato mostre, scritto saggi… Le mostre congiungono, hanno una fase di ricerca ampia.
Una mostra deve avere una sua logica, un insieme: deve assomigliare a un romanzo, non a una raccolta. Deve avere una storia.

Nella tua vita allora hai scritto romanzi!
Uscendo da una mostra devo chiedermi cosa mi ha raccontato. Una mostra non è un libro: per “scriverla” bisogna fare i conti con chi presta le opere e con chi non le vuole prestare, con le difficoltà di trasporto…

La tua esperienza è radicata nello studio, nel desiderio di conoscenza… tu entri nelle cose. Ti sei occupato anche di fotografia?
Sono stato direttore dei Servizi fotografici: documentazione fotografica di monumenti e opere d’arte. La fotografia oggi è molto cambiata… ma sono rimasto molto amico di fotografi.

Cos’è per te il fascino?
È qualcosa cui non si può resistere. Se incontri qualcuno o qualcosa cui non puoi resistere, significa che sei già caduto in trappola! Ci sono persone, paesaggi, città che ti affascinano. Ogni volta che ti avvicini ritrovi sempre qualcosa. Un luogo affascinante per me è il Lago di Sils: è un luogo affascinante e profondo che non mi stancherei mai di guardare e contemplare.

Cosa pensi del fascino delle donna?
Le donne mi interessano moltissimo! Le guardo e le ammiro. Essendo timido ho le difficoltà di tutti i timidi nell’approccio con il mondo femminile. Ho grande fiducia nelle donne, nella vita e nel lavoro. Sono più intuitive dell’uomo; detesto le donne che si sentono uomini.

Ci sono momenti in cui la donna è superiore all’uomo?
Nelle intuizioni prima di tutto; e poi nell’aiuto e nella solidarietà immediata. Giorni fa sul giornale ho letto la storia di una capriolo caduto nel Naviglio. Sono riusciti a salvarlo. Questa povera bestiola tremava dal freddo: tra tutti i soccorritori accorsi è stata una donna ad avere l’iniziativa di prendere un asciugamano per scaldarlo.

Come si uniscono epoche così distanti come il Medioevo, il Rinascimento e il presente?
Noi proiettiamo sempre il nostro presente nel passato. Noi conosciamo solo il nostro presente, il passato lo immaginiamo. Io ascolto musica classica, Karajan, Abbado: la musica cambia. Noi non possiamo fare a meno di essere nel nostro tempo.

Tutti ti chiedono consigli, aiuti: hai collaborato anche con le banche?
La Banca Intesa fa grandi opere di restauro e restituzioni. Con queste collaborazioni mi rendo conto della potenza finanziaria di una banca: riesce a fare cose che lo Stato non è in grado di fare.

Hai anche insegnato?
Mi è piaciuto molto insegnare.

Com’erano gli studenti? Com’era il tuo rapporto con loro?
Si sono stabiliti rapporti umani straordinari. Sono ancora in contatto con alcuni allievi: vengono a trovarmi, mi scrivono. Si crea nel tempo una sorta di paternità.

Hai insegnato anche in Svizzera?
In Svizzera molti adulti si iscrivono come auditori: sono dei trait-d’union tra la nuova generazione e la mia. Ricordo una pediatra, molto tenace; aveva dieci anni più di me. È molto bello vedere il desiderio di imparare anche in età adulta. Il rapporto con queste persone più grandi è stato proficuo, interessante. Ma naturalmente i miei allievi prediletti erano i giovani, che mi amavano molto e con cui sono ancora in contatto.

Hai figli?
Ho una figlia e un figlio. E una nipotina che ha sette anni.

Cosa succede diventando vecchi?
Si cerca di non perder la memoria, la freschezza delle impressioni vissute. Soprattutto è importante non perdere mai il contatto con i giovani, continuare a volerli capire. Anche se ci sono elementi che non accetterei mai. Miei amici architetti, per esempio, hanno un figlio che fa graffiti sui muri: questa è una delle cose che non riesco a capire…

Quando sei vecchio la vita è difficile, i guai degli altri ti vengono addosso; devi affrontare problemi tuoi e degli altri, è difficile.
Un aspetto doloroso della vecchiaia è la perdita degli amici. Ogni tanto pensi a qualcuno, poi rifletti e capisci che non lo vedrai più. La vecchiaia ha bisogno del conforto degli altri.

Ti ringrazio per la rara possibilità che mi hai offerto di parlarci.

“Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano”

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