Intervista a Claudio Magris

29 ottobre 2014

Pubblichiamo oggi l’intervista che Claudio Magris ha rilasciato ad Anna Crespi lo scorso 25 settembre, al termine della festa organizzata dagli Amici della Scala perchè lo scrittore potesse incontrare gli amici di Milano. Lo stesso Magris ha definito il dialogo che segue “una piacevole chiacchierata” ma, come leggerete, è davvero molto di più.

Claudio Magris agli Amici della Scala

Di te scrivi, nel 1987: “Troppo anarchico, temperamento troppo inquieto e dispersivo, troppo disordinato e senza metodo per poter essere capace di realizzare qualche cosa”. Così ti confidavi con Marin…

Anzitutto bisogna tenere conto che, in quelle confidenze con Marin, c’è spesso un tono immediato, impulsivo, che magari va talora oltre ciò che si vorrebbe dire. E ci può essere anche quell’autocompiacimento di criticarsi, di sminuirsi, che è purtroppo frequente nelle dichiarazioni su se stessi. A parte questo, quella mia autodefinizione è giusta, ma fino a un certo punto, in quanto indica una tendenza latente del mio carattere, meno controllata, in particolare, com’è ovvio, negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, che poi sono gli anni fondamentali della corrispondenza con Marin. Proprio perché c’è in me una forte tendenza al disordine, di cui mi rendo conto, questa fa scattare una specie di meccanismo di difesa, un ordine talora maniacale. Io sono, in realtà, molto ordinato nelle mie carte, ma ordinato a modo mio. Il mio studio è quasi sempre invaso da fogli e cartacce e appunti sparsi sul pavimento, però secondo un ordine, non evidente ma che io conosco molto bene. Ogni volta, prima di partire, anche se si tratta di un viaggio di un solo giorno, faccio un ordine perfetto. Come ogni vero anarchico, che non civetti con l’anarchia come se fosse qualcosa di affascinante ma che la avverta e la tema in se stesso, io cerco di fronteggiare questa anarchia con l’ordine, con una grande disciplina. Questo riguarda anche una certa tendenza alla dispersione. Ho molti interessi, anche assai diversi; m’innamoro di un autore o di un problema o di una letteratura anche a prescindere dalle cose che sto facendo e devo fare e questo credo sia molto utile, perché mi rende libero nelle scelte. C’è come una scissione in me. Da un lato, per quel che riguarda i doveri diciamo così professionali: ad esempio nel mio lavoro di tutta la vita, quale insegnante di letteratura tedesca, sono stato molto scrupoloso e preciso, leggevo sempre tutto quello che era doveroso leggere; così come ho sempre letto e annotato con molta attenzione le decine e decine di tesi di laurea, ho letto tutta la bibliografia critica che era necessario leggere per tenere i corsi accademici e così via. Quando invece non ho obblighi professionali e sono libero, mi abbandono ai gusti, agli impulsi, senza tenere conto dell’ordine del giorno. Così, ho delle grandi conoscenze in campi anche strani e delle grandissime lacune. Leggo quello che ho voglia di leggere, a prescindere dal fatto che si tratti di un libro di cui tutti parlano o di cui tutti tacciono. Passano talora intere stagioni senza che io riesca seguire la produzione letteraria contemporanea, e questo non per vezzo, ma perché il tempo è limitato e in quel momento mi interessano, mi appassionano altre cose. Per esempio, io ho letto per la prima volta Gli indifferenti di Moravia soltanto pochi anni fa, alla soglia dei settant’anni, e non certo perché non volessi leggerli, ma perché avevo sempre altre cose che mi appassionavano. Poi li ho letti e ne sono rimasto molto contento, perché è un bellissimo libro. Ma la vita è già così piena di obblighi, che, quando non se ne hanno di precisi, si può e si deve fare ciò che si vuole. Per questo detesto i giochi con le regole, proprio perché mi piace tanto giocare, inventare sul momento quello che mi va. Ricordo che una volta, a tredici anni, durante una partita di calcio, io, pessimo calciatore, nel ruolo di terzino, ho avuto inopinatamente un pallone tra le gambe mentre l’attaccante avversario si precipitava verso di me per cercare di fare un goal. In quel momento, in quella frazione di secondo, ho pensato: “Io sono in generale un ragazzo studioso, faccio i compiti, rispetto le regole e i principi, i comandamenti e i divieti. Ma adesso sono qui liberamente, solo per giocare e divertirmi, e quale legge, quale dio mi impone di tirare il pallone da una parte piuttosto che da un’altra? Io lo tiro dove, in questo momento, mi va di tirarlo”. Così mi sono girato e l’ho tirato nella nostra porta, facendo un autogoal e venendo espulso. Per la stessa ragione detesto le competizioni sportive. Già la vita è piena di competizioni inevitabili e necessarie, legittime ma sempre dolorose: ogni concorso vinto è anche malinconico, perché significa che un altro lo ha perso; ogni posto di lavoro conquistato è anche doloroso perché vuol dire che un altro non lo ha avuto. Naturalmente abbiamo il diritto, direi il dovere, di cercare di avere un posto di lavoro e di batterci per questo e di vincere, ma non è un divertimento. Quindi, quando la competizione non è necessaria, non mi interessa per niente. Se corro, corro perché mi piace correre, non per arrivare primo. Apprezzo molto quello Scià di Persia che, in visita ufficiale in Inghilterra, portato alle corse di Ascot, declinò l’invito dicendo: “So bene che uno di questi cavalli è più veloce degli altri, ma non mi interessa sapere quale”. Quindi una grande mescolanza di ordine e anarchia, ma senza alcuna posa. Molta disciplina, ma, quando è possibile, nascosta.

 

Quindi questo è un principio di sensazioni di quello che sei…

Certo, la disciplina è necessaria anche per riuscire ad afferrare la felicità, il piacere, le cose fuggenti. Ad esempio una delle cose che amo di più al mondo è tuffarmi in mare, e a Trieste, tra aprile e gli inizi di novembre, ogni giorno cerco di tuffarmi in mare. Ma tutto congiura contro questo lecito piacere, contro questa legittima felicità; ci sono sempre mille cose che ostacolano, richieste, domande, interruzioni e allora bisogna difendersi come una guarnigione nel deserto dei Tartari, difendersi con i denti, scansare tutte le trappole che la realtà e il lavoro ci tendono per riuscire a tuffarsi in mare. Per scansare queste trappole, bisogna studiarle con disciplina.

 

E come ti senti adesso che non ti tuffi nel mare?

Certo, il mare mi manca e mi manca soprattutto nei momenti di stanchezza; non di stanchezza fisica, ma di quella stanchezza che ha a che fare con l’infelicità, quando uno è inceppato dentro di sé, quando si sente spiritualmente come se avesse della biancheria sudata. E allora il mare è la giusta grande medicina.

 

È una cosa di quando eri bambino?

Sì, questo amore per il mare risale all’infanzia. Ha a che fare anzitutto con Trieste, città non solo di mare, ma dove il mare è vicinissimo e lo si può raggiungere e godere anche quando si ha soltanto una mezz’ora di tempo fra un impegno e l’altro di una vita sempre affannata. Poi ci sono, vicini, mari meravigliosi; il mare istriano, il mare dalmata, che conosco a memoria. Questo amore per il mare l’ho imparato da mia madre; fin da quando ero bambino, molto piccolo, mia madre, che amava moltissimo il mare e lo ha amato fino a età molto avanzata, mi portava al mare. Per me i primi giochi, le prime avventure, i primi incantamenti amorosi sono legati al mare. L’eros senza il mare è impensabile, anche la mia storia con Marisa è molto marina.

 

Marin scrive di te: “Ho quasi paura della sua intelligenza, della troppo tensione, e che si spezzi…”.

Per quel che riguarda l’intelligenza, Marin la sopravvalutava perché mi voleva bene. Naturalmente c’era in lui quella diffidenza nella ragione che era tipica della sua generazione, piuttosto irrazionalista e vitalista, che credeva giustamente nell’intuizione ma ingiustamente tendeva a sottovalutare la logica. Quanto allo spezzarsi, certamente allora e anche più tardi ero abbastanza fragile; sono diventato solido abbastanza tardi e lui allora ha colto bene questa tensione dell’arco che è talmente teso da rischiare di spezzarsi. Una tensione sentimentale, psicologica, morale, di vario genere. Infatti nella mia vita ho avuto due capitomboli nervosi. Come diceva Chesterton, c’è anche del buono nell’invecchiare; sono meno felice di una volta, però sto meglio, fisicamente e psicologicamente, forse perché mi prendo molto meno sul serio. Non mi sento più l’attore principale della mia vita, ma il comprimario e quindi non dò un peso eccessivo a quello che mi accade o mi può accadere.

 

Riesci ugualmente ad avere quella forza…

Non sta a me dirlo, ma credo di avere abbastanza forza.

 

Magari di più, così vedi con distacco e meno passione.

No, non meno passione, molta passione; ma passione rivolta non tanto verso di me ma verso altri, rivolta fuori più che dentro.

 

Tu, ragazzino di sedici anni, pur avendo un’eccellente famiglia, desideri un nonno poeta…

No, non ho mai desiderato un nonno poeta. Non ne avevo bisogno, perché mio padre e mia madre sono stati veramente grandi nel mostrarmi, non solo moralmente ma anche culturalmente, per quel che riguarda il senso e dunque anche il senso poetico della vita, la strada giusta. Del resto è stato mio padre a farmi conoscere Marin, che lui conosceva perché mio padre lavorava alle Assicurazioni Generali, dove in quel periodo lavorava anche Marin… si fa per dire, “lavorava”; gli avevano offerto questo posto tanto per dargli un aiuto, visto che nella sua vita errabonda non aveva certo i mezzi per una serena vecchiaia e così in teoria faceva il bibliotecario, ma in realtà non faceva niente, scriveva poesie in quella biblioteca delle Assicurazioni Generali, chiacchierava con me e con altri amici, leggeva Platone o i Vangeli. Non credo che la mia relazione con Marin sia stata una relazione fra nipote e nonno, anche se lui avrebbe potuto quasi averne l’età. Piuttosto è stato un rapporto tra due fratelli, uno dei quali maggiore; un rapporto in certi momenti più paterno che fraterno, ma mai soltanto paterno, bensì sempre anche molto fraterno e anche conflittuale. È da Marin che ho imparato che in ogni rapporto fra due persone, a prescindere dalle disparità di valore, di esperienza, di intelligenza, di creatività tra una persona e l’altra – Marin era ovviamente ben più grande di me e io lo sapevo benissimo – il rapporto, quando è autentico, è sempre “pari” perché il vero rapporto è un terzo fra i due, è lo spirito del dialogo, è quello spirito che soffia dove vuole e non si può mai essere sicuri su quale delle due teste, in quel momento, soffia e dunque quale delle due teste, in quel momento, sia più nella verità, a prescindere da tutto ciò che negli anni o nei decenni precedenti uno o l’altro può avere creato. Il fatto che Marin fosse un grande poeta e io no non vuol dire che un certo momento non potessi essere io a capire meglio la vita, a essere toccato dalla grazia più di lui. Non per questo diventavo maggiore di lui. Questa sensazione l’ho avuta con tutti i grandi che ho avuto la fortuna di frequentare: con Singer, con Canetti e con altri. No, non ho sentito Marin come un nonno, tanto è vero che mio figlio Francesco lo chiamava “nonno Biaseto”. Mio figlio Francesco, che è nato poche ore prima della morte di mio padre, mancato molto presto, a sessant’anni. Ricordo quella notte in cui correvo da un ospedale all’altro, ricordo quel momento in cui mi sono sentito improvvisamente in prima linea. Era come essere schiaffati in un reggimento improvvisamente sulla linea del fuoco. Anche con mio padre avevo un rapporto intenso, forte; un rapporto pari, nonostante la sua superiorità.

 

Il grande dolore, quello veramente grande, cambia?

Penso che il dolore ci cambi sempre. Ci può cambiare in molti modi. Talvolta può abbassare, togliere comprensibilmente ogni apertura verso il mondo e verso gli altri, rinchiudere una persona nella propria sofferenza, rendendola incapace di vedere quella degli altri e di partecipare alla vita degli altri. Altre volte invece il dolore può anche innalzare l’animo, far capire quanto siano vane le preoccupazioni, le ambizioni, le smanie, le pretese di cui siamo vittime; far capire quanto siamo ciechi di fronte alla nostra sorte.

 

Ma il dolore così forte è come un elettroshock?

Una volta si credeva che l’elettroshock facesse bene, poi lo si è considerato un elemento di tortura, specie negli ospedali psichiatrici. Credo che bisogna essere pronti ad affrontare il dolore quando sia necessario, ma che si debba cercare di evitarlo il più possibile, per noi e per gli altri. Saba diceva che l’unica guerra santa è quella contro il dolore. Ho visto tante storie di dolore molto diverse; alcune hanno migliorato, altre hanno incattivito le persone. È più facile che il dolore incattivisca, è triste ma è comprensibile che ciò accada.

 

A te ha dato un senso?

Diciamo che il dolore, che ho certamente provato, non mi ha tolto il senso della vita. Certo, quando per esempio ho visto per molti anni morire lentamente, distrutta progressivamente e sempre più crudelmente da un tumore, una dolcissima bambina, mia parente, c’erano dei momenti in cui veniva voglia di mettere una bomba nell’universo. Poi però c’era il sorriso di quella bambina, la dignità con cui ha vissuto, pur semidistrutta, e questo naturalmente dà un senso profondo alla vita.

 

Non ti si è sballata la testa…

Una ventina d’anni fa ho avuto un periodo in cui sono stato psichicamente, nervosamente, esistenzialmente molto in difficoltà. Ero un po’ alterato e sono stato molto aiutato da amici e da amiche. Mi rendevo conto di essere anche insopportabile, perché se ti fa male una gamba puoi pesare su chi ti prende in braccio per farti fare le scale,ma quando ti fanno male queste caverne interiori diventi veramente difficile e anche sgradevole per gli altri. Mi rendevo conto che stavo consumando un capitale di affetti. Ma non era vero, perché gli affetti verso di me sono rimasti inalterati, anche se in certi momenti devo essere stato assai pesante. Sai, quando si sta male, quando il dolore colpisce il ministero degli interni nella tua testa, allora è un guaio perché il tuo cuore e la tua testa sono come una piazza in disordine.

 

È vero che sei così intelligente che potresti spezzarti?

Credo di essere mediamente intelligente e poi l’intelligenza, in questi casi, non conta molto. Un’intelligenza non è necessariamente più legata a un temperamento piuttosto che a un altro, può essere dura o fragile. Comunque adesso corro molto meno il rischio di spezzarmi. C’è del buono nell’invecchiare, come diceva Chesterton. Grazie a Dio ho molto riso nella mia vita. Il riso è molto importante. Naturalmente ci sono stati momenti in cui, specie da giovane, una generosa ma incauta prontezza ad accettare qualsiasi sfida avrebbe potuto essere superiore alle mie forze e quindi anche spezzarmi. C’è un verso di Saba in cui mi riconosco a fondo: “La giovinezza cupida di pesi porge le spalle al carico. Non regge, piange di malinconia”. Ora non posso più parlare di giovinezza, ma reggo meglio. E quel pianto di malinconia è stato ed è molto controbilanciato dalla grande importanza che ha avuto e ha nella mia vita il riso.

 

Tu hai fatto tante cose tra l’altro con l’università, a Torino e Trieste e in Germania. Per anni dovevi fare la routine tra Torino e Trieste.

Il viaggio in treno mi è molto congeniale. Quelle sei, sette ore di tempo libero – in cui potevo riposare, scrivere, preparare le lezioni, leggere – è stato molto fecondo e proficuo. Poi è stata anche molto feconda questa sorta di bigamia fra le due città, che erano un po’ il contrario l’una dell’altra. Torino era in pieno sviluppo, durante gli anni dei miei studi ha raddoppiato la sua popolazione; era un po’ il cuore pulsante, anche agitato e violento ma sempre interessante e stimolante di quello che succedeva in Italia. Trieste era invece una specie di libertà zingaresca, un mondo in declino che poteva costituire un pericolo, il pericolo di addormentarsi e il pericolo di fissarsi nel proprio piccolo, ma anche dava un specie di libertà interiore dalle parole d’ordine del mondo. Sono stati anni felici. Anche adesso sono molto legato a Torino. Così come ho due figli tra i quali non scelgo, non posso nemmeno scegliere tra queste due città.

 

La tua calligrafia: ho ricevuto un biglietto di ringraziamento con rose bellissime, con un’elegante calligrafia. La tua calligrafia com’è?

Quel biglietto, ieri, l’ho scritto tre volte, perché temevo che tu non riuscissi a leggerlo. La mia calligrafia è spesso illeggibile, nevrotica. Talvolta ho io stesso delle difficoltà a comprenderla. Quel biglietto l’ho scritto tre volte perché ci tenevo a sapere che i fiori te li avevo mandati io.

 

Per cui hai una calligrafia difficile. Perché sei nervoso, per premura o per che cosa?

No, non per nervosismo, anche se sono bombardato ogni giorno da richieste, sollecitazioni, decine e decine di lettere cui rispondere, quattto o cinque dattiloscritti al giorno che mi si chiede di leggere e così via. Io poi non sono capace di scrivere al computer, non si tratta di civetteria, detesto le posizioni pseudo aristocratiche secondo le quali una penna sarebbe più autentica o più vicina a Dio del computer. Semplicemente sul computer, digitando, io sono grado di scrivere soltanto singole parole e scrivere singole parole non vuol dire scrivere, perché scrivere veramente significa avere la musica della frase, non sapere quello che scriverai fra un minuto e tutto questo io ce l’ho nella mano, nel braccio e nella mano che tiene la penna. Ma si tratta soltanto di un’abitudine o di un tic personale. È legittimo avere i propri tic personali ma guai idealizzarli o farne una sorta di simbolo, di originalità o di chissà cosa.

 

Tu fai ricerche di studio? E cosa succede in questa tua ricerca?

Io sono maniaco dell’esattezza, salvo poi deformarla in una storia fantastica. Credo che, come diceva Svevo, la vita sia originale, certo più originale di quello che posso inventare io. Mark Twain diceva: “Truth is stranger than fiction”. La realtà è talmente imprevedibile e drammatica – ora tragica ora comica, ora bella o brutta, ora nobile o ignobile – da sfidare qualsiasi romanzo. L’idea di un mio testo parte spesso da qualcosa di vero, di reale e la ricerca della scrittura assomiglia a un po’ a quella di un detective, che scopre pezzi di mondo, di esistenza. Una volta, quanto ero a Ulm, la città sul Danubio dove c’è un grande duomo, avevo letto che nell’Ottocento un mugnaio, un certo signor Wammes, persona brava e pia, aveva venduto i pantaloni per dare il ricavato per i lavori di restauro della chiesa. Io ho fatto una piccola ricerca per sapere quanti denari aveva preso per le sue braghe che aveva venduto. Naturalmente questo di per sé non ha nessuna importanza, perché non ce ne importa niente di sapere se il signor Wammes aveva preso otto o dieci corone o fiorini. Ma ciò significa che ogni sconosciuto signor Wammes ha diritto alla stessa filologia – parola che contiene etimologicamente l’amore – come i grandi personaggi della storia. Se scrivo un biografia di Goethe, devo essere esatto nel citare il giorno in cui lui ha baciato per la prima volta Friederike Brion, anche se di questo non ce ne importa niente. E questo dovrebbe valere per tutti. Quando scrivo ho la sensazione di fare un mosaico, in cui ogni singola tessera corrisponde a un pezzo di realtà, e poi con queste tessere compongo un disegno totalmente immaginario. Se bello o brutto, è un altro discorso.

 

Il mondo cambia molto rapidamente e noi cerchiamo in questo nuovo mutamento la nostra vita. Questo mondo attuale è in metamorfosi o no?

Certo, una metamorfosi enorme. Sta avvenendo non solo un mutamento sociale o culturale, con conquiste e perdite, ma una trasformazione antropologica, in tempi rapidissimi e non lenti anzi lentissimi come un tempo. Sta cambiando perfino la struttura psicofisica dell’uomo; in teoria viviamo in un mondo in cui potrebbero esistere soltanto donne che si autofecondano e tutto questo cambia radicalmente il modo di sentire di vedere, di raccontare. Nietzsche aveva già visto , previsto tutto questo quando parlava del superuomo, termine col quale indicava non un superindividuo particolarmente dotato, ma uno stadio antropologico proiettato aldilà, più avanti di quello attuale. Credo che noi dobbiamo distinguere continuamente ciò che, in questo mutamento, è positivo e ciò che invece è inaccettabile, perché continuo a credere che ci siano alcuni valori morali non negoziabili e che non possono mutare con i tempi. Dobbiamo navigare a vista in questo mutamento velocissimo; ci troviamo in un’automobile in cui siamo abituati ad andare a centrotrenta chilometri all’ora e in cui improvvisamente ci troviamo ad andare a ottocento o mille chilometri all’ora. Navigare a vista con le piccole, sempre più insufficienti bussole che abbiamo.

 

Torniamo al tuo passato: nel 1966 incontri Pasolini. Che impressione culturale ti aveva fatto?

L’ho incontrato una volta a Roma, a casa della figlia di Marin, Gioiella, quando con Pasolini abbiamo fatto quell’antologia di Marin pubblicata da Einaudi e curata da Guido Davico Bonino. Con Pasolini ho avuto pochissimi rapporti personali. Ho un profondissimo interesse per la sua personalità, che ha vissuto sulla sua pelle le trasformazioni che avvenivano nel Paese, anche con tutto ciò che questo ha forse necessariamente di inaccettabile, di inverecondo, di sfacciato. È stato, in forme diverse o antitetiche, un altro D’Annunzio, per la capacità di vivere su se stesso le trasformazioni, il bene e il male dell’epoca. L’ho sentito vicino una volta quando è intervenuto a proposito dell’aborto. Ho parlato pochissimo con lui; credo che con la sua personalità così capace di testimoniare – personalità che in questo senso ho molto ammirato, ma estremamente narcisista – non avrei avuto un rapporto facile. Però certamente è stato una personalità che, nella estrema contraddittorietà, è stata una delle figure più importanti, una specie di cartina al tornasole di tutto ciò che è successo in questi anni, nel bene e nel male.

 

Tu hai paura dei tuoi sentimenti?

No. Naturalmente si è sempre scombussolati quando capita un sentimento nuovo. È un po’ come aprire le finestre e lasciare che entri un vento forte che magari metta tutto all’aria. Ma non ho paura.

 

Tu hai avuto una grande amicizia con Alberto Cavallari che io conoscevo molto bene quando era direttore del “Corriere della Sera”.

È stata un’amicizia veramente grande. Un’amicizia anche molto gagliarda, picaresca e sanguigna. Ho avuto per lui una grande ammirazione, per il suo coraggio e per la sua integrità; a parte le critiche che gli facevo quando voleva fare tutto lui, da direttore del “Corriere”; se avesse potuto, avrebbe spazzato anche le scale, perché non si fidava, e questo era il suo temperamentaccio. Ma è stato un uomo e uno scrittore notevolissimo; gli devo moltissimo, perché in generale tutta la mia attività al “Corriere” e in particolare con lui è stata per me una formazione essenziale. Il mio Danubio non sarebbe nato senza di lui, se lui non mi avesse detto una volta di andare a Vienna, di starci quindici giorni e di fare quello che mi pareva, di guardare quello che mi pareva – ossia non mi ha dato un compito preciso – ma di dargli quindici giorni dopo un paginone. E questo è stato il nucleo di Danubio, insieme a quella famosa giornata alla frontiera con la Slovacchia in cui Marisa ha avuto la formidabile idea: “E se andassimo avanti bighellonando sino al Mar Nero?” Questi due momenti sono stati la genesi di Danubio. Poi il suo coraggio, la sua integrità. Anche la sua adorabile ingenuità: quando siamo andati a trovare Marin a Grado e Cavallari gli raccontava con amarezza quello che gli era successo dopo aver portato in salvo il “Corriere”, Marin gli disse: “E Lei si stupisce di questa ingratitudine? Non si ricorda di cosa dice nostro cugino Platone? Là dove un uomo liberamente si pone, sorge spontanea la comunella dei malvagi”. Uno dei più bei momenti che ho passato, alcuni dei più bei giorni che ho vissuto, sono stati quando, dopo la fine della sua direzione, siamo andati lui, suo figlio Andrea, Marisa e io a Vienna, dove abbiamo passato una decina di giorni scioperati, ridendo e facendone di tutti i colori. Ricordo che, quando era direttore, ogni tanto, ossia periodicamente, Marisa andava a Milano per un controllo al Centro Tumori. Un giorno, che eravamo a Milano tutti e due, lei e io, per questa ragione, gli abbiamo telefonato al “Corriere” e lui ci ha detto di andare a pranzo. Marisa gli ha detto che non c’era tempo perché aveva un appuntamento abbastanza presto e allora lui ha anticipato la riunione al “Corriere” e poi ci ha accompagnato al Centro Tumori, riuscendo a trasformare questo momento, sempre un po’ teso e preoccupato, in un’irresistibile occasione di allegria, a seguito di tante trovate e invenzioni esilaranti. A parte Cavallari, il “Corriere della Sera” è stato fondamentale per me. Vi scrivo da quarantasette anni; sono il più anziano collaboratore, non per età, ma per continuità di collaborazione. Devo molto al “Corriere”. Scrivere per un giornale significa essere costretti a cercare di capire il mondo mentre ti piomba addosso, comprendere le cose mentre stanno succedendo. Ti insegna a scrivere in modo da essere contemporaneamente comprensibile e chiaro senza tuttavia cedere ad alcun semplicismo. Una scuola di resistenza; bisogna tuffarsi nell’aria del tempo senza soggiacere all’aria del tempo. Il giornale ti mette al mattino in contatto con quel romanzaccio terribile che è la vita e tu devi entrarci, tuffarti in quella polvere senza sporcarti ma senza la paura dello sporco. In generale, sono stato in eccellenti rapporti con i direttori del “Corriere”. Ho sempre avuto la massima libertà, ne ho ricavato molti stimoli. È stato una grande scuola. Ho scritto il mio primo articolo in terza pagina – il che significava allora una grande promozione – sei anni dopo aver cominciato a scrivere sul “Corriere”. Per fare solo un altro esempio, devo tanto anche a de Bortoli, grande direttore che ha saputo e sa unire fermezza e pacatezza in momenti molto difficili e ha dato molto al giornale. Ma del “Corriere” vorrei ricordare anche altre figure che mi sono state vicine, veri grandi amici e compagni di strada ai quali devo molto. Ne nomino soltanto tre: Giovanni Grazzini, Giulio Nascimbeni e Gaspare Barbiellini Amidei.

 

Hai conosciuto bene Spadolini?

Si, ho conosciuto bene Spadolini, anche perché mio padre era del Partito Repubblicano. Ho avuto con lui eccellenti rapporti, mi ha pubblicato molti scritti sulla “Nuova Antologia” e ci siamo frequentati anche al Senato. Ricordo che una volta mi aveva chiesto a quanti anni avevo vinto il concorso per la cattedra universitaria. Dopo la mia risposta, aveva esclamato, stupito e forse un po’ sdegnato: “Ma come, più giovane di me!” Io gli risposi: “Presidente, davo per scontato che non fosse così, altrimenti avrei doverosamente aspettato”.

 

A te piace quindi il dialogo, l’incontro, ritrovarsi con la parola? Il dialogo ti piace oppure ti disturba?

Amo molto il dialogo quando nasce spontaneo; al caffè, all’osteria, alla birreria, fra amici. Credo molto nel dialogo tra due persone che in qualche modo si incontrano e si capiscono; è il dialogo il protagonista di quel terzetto; le due persone e appunto il dialogo. E in questo è stato fondante per me l’esperienza del liceo in cui, grazie ad alcuni insegnanti e soprattutto ad alcuni compagni, alcuni dei quali purtroppo ora se ne sono andati mutilando la mia esistenza, ho imparato una cosa fondamentale: a passare attraverso la vita contemporaneamente prendendo le cose sul serio e ridendo; ridendo di ciò che si continua ad amare e rispettare e amando e rispettando ciò di cui si ride. Amando lo studio e ridendo dello studio, amando la scuola ma venendo sospesi ogni tanto per ragioni disciplinari. Questo è il dialogo. I talk show non sono dialogo.

 

Come sei messo con Dio?

Domanda difficile, la domanda delle domande. Potrei dire, come quasi tutti, che qualche volta credo e qualche volta no. Ho avuto per mia scelta un’educazione cattolica che ho scelto io; non che i miei fossero contrari, ma la scelta è stata mia ed è stata molto importante, positiva, liberatoria nell’adolescenza. Poi ho lasciato la pratica per coerenza, onestà, perché ho capito che non avrei accettato alcune cose. Mi riconosco in pieno nel piccolo libro di Horkheimer, il fondatore insieme ad Adorno della Scuola di Francoforte e del cosiddetto pensiero negativo, quando parla della nostalgia dell’Assolutamente Altro, quando dice che noi possiamo certo dire qualcosa solo sul mondo finito ma che questo mondo finito non basta. Sento molto questa esigenza di Dio, questo sfondo di Dio. Sono un lettore assiduo del Nuovo Vecchio Testamento e anche di testi teologici, protestanti (Barth, Bonhoeffer) e soprattutto cattolici, in particolare Karl Rahner, che mi aiuta ad attraversare l’esistenza. Per quel che riguarda il cattolicesimo, lo considero – al di là di ogni giudizio storico sulla sua evoluzione o sulla Chiesa – non certo l’unica espressione della verità, ma per me diciamo così una lingua naturale in cui esprimere il mio senso religioso della vita. Così come l’italiano è la mia lingua naturale, senza che per questo la consideri superiore alle altre. La pratica della confessione mi ha liberato da molti nevrotici complessi di colpa. C’è una bellissima frase di Chesterton in cui mi riconosco, quando dice che se non si crede in Dio il guaio non è, come dicono tanti preti, che si finisce per non credere a niente, il che sarebbe semmai una liberazione, ma il guaio è che si finisce per credere a tutto.

 

Io non parlo perché non posso parlare, io devo farti delle domande ma sarebbe molto divertente parlare con te. Tu sei uno straordinario lavoratore, capace di volontà e di raccoglimento; cosa accade quando tu entri nel raccoglimento? Cioè abbandoni la vita attiva e a un certo punto ti raccogli?

Sì, scrivo volentieri al caffè; non ho necessità di avere intorno a me sublimi solitudini, bensì gente che – mentre scrivo e, come chiunque scriva, credo di mettere a posto il mondo – se ne infischia e ridimensiona subito il delirio insito nella scrittura. Ci son poi diversi modi di scrittura e quindi diversi raccoglimenti. C’è quello che riguarda il momento del furore quando si scrive perché una cosa ci indigna, ci entusiasma o ci chiama in aiuto; in questi casi, tutto preso da questa passione etica e talora etico-politico, potrei scrivere dovunque, anche in piedi nel tram, su qualsiasi bigliettino, è come un match di pugilato. Quando invece comincia a delinearsi, all’inizio sempre confusamente, un’idea letteraria, allora le cose sono molto diverse. Il raccoglimento è molto friabile perché non si sa bene cosa succederà. Quando comincio a scrivere un libro non so mai quale libro scriverò; lo capisco appena dopo averne scritto almeno un terzo. Così è successo con Danubio e con gli altri libri. Quando scrivevo Danubio, all’inizio non sapevo che cosa ne sarebbe venuto fuori, un reportage o un libro di storia culturale oppure, come è avvenuto, una specie di romanzo sommerso. Il raccoglimento esiste sempre, pur essendo per definizione un raccoglimento in se stessi con una grande apertura sul mondo, sulla realtà che ci circonda, sulle cose e le persone in torno a noi, che sono spesso molto più ricche della nostra solitudine.

 

Nel 1914 l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, questo pezzo di storia, ha portato Joseph Roth a scrivere dei libri. In questo nostro tempo, ci può essere ancora ispirazione per scrivere dei romanzi o non si capisce più niente?

Credo che il vero romanzo che si può scrivere oggi è quello che si confronta con la nostra estrema difficoltà di capire il mondo e i suoi mutamenti. Credo non sia più possibile scrivere romanzetti ben fatti e conclusi, ben ordinati. I grandi romanzi che continuano a formarci sono, come ha detto La Capria, “capolavori falliti” ossia non certo libri scritti da autori deboli bensì, come voleva dire La Capria, romanzi che hanno assunto su di sé, nelle loro stesse strutture, questo caos e disordine che ha invaso il mondo, questo naufragio, questo Maelstrom . La grande stagione di Svevo, Proust, Mann, Kafka, Joyce, Faulkner, Musil, un po’ più tardi i grandi sudamericani. Romanzi che hanno assunto su di sé il gorgo del disordine. Il grande scrittore ottocentesco poteva usare la stessa lingua quando scriveva le sue storie di invenzione e quando scriveva le sue prose morali e politiche. Quando Victor Hugo scrive I miserabili, la sua lingua, la sua sintassi, non sono diverse da quelle con cui scrive i suoi scritti contro Napoleone III. Kafka non avrebbe potuto scrivere con lo stile della Metamorfosi un testo politico o un messaggio di solidarietà ai minatori della Slesia. Ci si deve misurare con questa spaccatura; questa è la grande sfida del romanzo. Ci si deve misurare con questo cataclisma. Ho tentato di farlo nel mio Alla cieca e sto cercando di farlo anche adesso in un libro che sto scrivendo.

 

Cosa mi dici, se vuoi parlare di questo, del Papa?

Non l’ho mai incontrato, mentre sono stato ricevuto in udienza privata da Benedetto XVI. Bergoglio è veramente un uomo straordinario. Tra le tante cose che mi hanno colpito, è stato che ha scelto quale epigrafe – per un suo libro che è un commento agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola – due versi della calzone alpina sul capitano che “l’è ferito e sta per morir”. I due versi sono: “… l’ultimo pezzo alle montagne / che lo fioriscano di rose e fior”. È veramente un colpo di genio, un vero senso cattolico ossia universale della vita, del suo fiorire e sfiorire, del corpo. Bergoglio sa essere, come dice il Vangelo, semplice come una colomba e astuto come un serpente; infatti riesce a fare grandi cambiamenti con straordinaria abilità, con l’aria semplice di chi fa qualche cosa di assolutamente normale, con tranquillità, bloccando quindi sul nascere le reazioni.

 

Una domanda stupida: credi negli oroscopi? La luna e le altre cose?

No

 

Tu hai scritto un tuo diario?

No, forse non ho scritto un diario perché ho scritto sempre molto e non mi restava più energia, anche perché scrivo a mano… o forse perché ho riluttanza a concentrarmi troppo sui miei fegatini.

 

Tanto poi non si leggono più i diari; io li scrivevo quando avevo i bambini piccoli perché mi serviva per capire. Poi dopo non riuscivo più capire perché tutto si ribaltava. Cos’è per te la grazia?

Impossibile rispondere a questa domanda. La grazia, il kairos, l’istante di vita autentica, quella pienezza in cui ti trovi – non so se per tuo merito o senza tuo merito – nel giusto, in armonia con le cose, con le loro contraddizioni. Può avere a che fare con l’amore, con l’amicizia. È qualche cosa al di sopra del tempo, che viene vissuta come qualcosa al di sopra del tempo. In quel mio incontro con Papa Ratzinger mi ha colpito, e gliel’ho anche detto, che nel suo libro su Gesù egli dice che la vita eterna non è un tempo indefinitivamente prolungato ma è la vita autentica, la pienezza di conoscere la verità. Può essere la verità religiosa ma anche la verità della vita.

 

Si può forzare la grazia?

No, non si può forzare la grazia. Si può però fare qualcosa ossia preparare le cose in modo che, se ti arriva, possa essere accettata. Essere disponibili, essere una porta o una finestra aperta. Troppo spesso il nostro modo di essere, di agire, consiste in una specie di chiusura; chiudiamo a priori, magari senza accorgercene, le porte, per cui se la grazia bussa alla nostra porta, non sentiamo, non apriamo la porta e perdiamo questa grande possibilità. Ci si sente in stato di grazia non soli, ma con gli altri: con le persone amate, con i figli, con gli amici. Essere in questo stato di grazia con le persone è forse la cosa più bella che esista al mondo.

 

Avverti il cambiamento del tempo, come essere, come mondo che cambia? Ti accorgi del tempo che passa oppure sei sempre forte?

Mi accorgo del tempo che passa, anche per quel che mi riguarda. Quando, col passare degli anni, come dice Andrić, non si guardano più tanto le cose quanto l’ombra che gettano le cose.

 

Una donna se ne accorge quando un uomo non si gira più a guardarla. E un uomo?

Ce ne accorgiamo da moltissime cose. Molto banalmente, dalle gambe con cui non possiamo più andare dove andavamo prima. Ma talvolta è come si sentisse frusciare il tempo che passa; qualche volta, ad esempio, con la morte di una persona che ci è stata vicina, si ha la sensazione di un salto qualitativo nel passare del tempo. Però io avverto anche che il tempo non passa, che le cose sono, per sempre. Intendo le cose che hanno senso e valore e soprattutto le persone. Noi diciamo che Dante è un poeta, non che era, e questo vale anche per le persone che abbiamo amato e dunque che amiamo, anche se se ne sono andate, che continuano ad accompagnarci e ad essere con noi.

 

Stajano dice di te: arrivi con passo veloce, ufficiale imperial–regio con l’inseparabile borsa di pelle piena di carte…

In quel bellissimo libro che si chiama Promemoria, Stajano, nella prima pagina, descrive l’aula del Senato quando vi siamo entrati tutti insieme per la prima volta e dice che io siedo in alto, nell’ultima fila, lontano da tutti, come in castigo…

 

Tu hai dei tic?

Sì purtroppo ne ho. Ma ne avevo molti di più. Anche qui c’è del buono nell’invecchiare.

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