Giovani e mondani: “i nuovi maestri” stanno cambiando la musica?
22 giugno 2012
Era austero, inaccessibile e anziano. Oggi, sempre più spesso, si mostra affabile e informale, a suo agio con giornalisti e fotografi. E soprattutto è giovane, giovanissimo. La trasformazione internazionale della figura del direttore d’orchestra negli ultimi decenni, sia nel suo rapporto con gli orchestrali che nei confronti del pubblico e dei media, è ripercorsa da Andrew Clark, critico musicale del Financial Times, in un editoriale pubblicato pochi giorni fa nell’inserto culturale del fine settimana del quotidiano finanziario britannico, dal titolo “The modern maestro“.
Si tratta di un articolo lungo e pregnante, capace di affrontare al contempo le questioni dell’autorità musicale e dell’interpretazione, oltre ad aspetti più prosaici quali gli alterni movimenti del mercato della musica classica e lirica. Di questo testo proponiamo oggi alcuni tra i passi più salienti, nella speranza che una simile analisi, più o meno condivisibile, possa comunque generare riflessioni e, perché no, dibattiti su temi di sicuro interesse anche per la scena artistica del nostro Paese.
Se c’è un uomo che per Clark incarna in pieno il “modern maestro”, questo è il ricciuto venezuelano Gustavo Dudamel, classe 1981: “dinamico, eloquente, media-friendly”. E soprattutto, come detto, giovane: tanto più che aveva soltanto 26 anni al momento della sua nomina a direttore dei Los Angeles Philharmonic. Ma come è potuto succedere che Dudamel, insieme a colleghi come il 33enne lettone Andris Nelsons e il 29enne britannico Robin Ticciati (dalla sua prospettiva, Clark non fa nomi italiani), siano assurti a posizioni che, fino a poco tempo fa, erano di esclusivo appannaggio, o quasi, di musicisti non lontani dall’età della pensione? “Conductors begin at 60”, almeno fino ai primi anni Ottanta, appariva come un principio di difficile deroga.
Quello che è andato in scena, per Clark, è in realtà un cambiamento molto profondo: una completa ridefinizione del ruolo delle orchestre nella società contemporanea. Parliamo di un processo che ha subito una brusca accelerazione negli anni Novanta, quando da un lato l’influenza crescente della cultura popolare anche sulla musica colta e dall’altro il declino dei sussidi pubblici hanno messo in discussione un modello orchestrale sopravvissuto per tutto il dopoguerra.
In questo contesto, molti tra i grandi ensemble internazionali hanno inseguito un cambio di rappresentazione, cercando di ridefinirsi “come strumento educativo e ricreativo a disposizione dell’intera comunità”. “Per giustificare il supporto pubblico”, continua il critico del FT, “l’orchestra ha avuto bisogno di promuoversi come motore delle eccellenze creative”. Questo non soltanto ha implicato, in molti casi, l’arrivo sul palco di generi crossover o di rappresentazioni “meno proibitive del formato del concerto”. Ma ha anche richiesto nuove figure di testa capaci di suscitare nel pubblico maggiore fascino e attrazione rispetto al passato.
Sulla superficie di questo cambiamento si collocano appunto i nuovi direttori d’orchestra, personaggi “a metà strada tra lo strumento promozionale e la guida di ispirazione musicale”. Questo “Effetto Dudamel”, che si esprime in pubblico in una estrema visibilità e disponibilità verso i media (per contrasto, Clark ricorda la statura del russo Evgeny Mravinsky – foto sotto -, che nella sua intera carriera mai rilasciò un’intervista), porta con sé un corollario di altro segno tra le pareti della sala prove, dove i maestri più giovani – se non altro quelli più apprezzati – sono lontani dal proporsi come leader autocratici.
“Oggi, la relazione tra il direttore e i musicisti è più informale, più collegiale, e meno reverenziale”, dice Mark Elder, 65 anni, direttore musicale della Hallé Orchestra di Manchester. Questa democratizzazione avrebbe preso piede negli anni Novanta con “la rivoluzione del CD”: supporto musicale che, rendendo economiche registrazioni e incisioni, segnò la fine di quegli esclusivi contratti discografici che avevano fatto la fortuna di straordinari direttori del dopoguerra come Herbert von Karajan, Georg Solti e in precedenza Arturo Toscanini (ancor più interessante sarebbe indagare quali reazioni hanno prodotto gli ultimissimi sviluppi digitali dell’industria del settore, ndr).
Al di là di queste differenze, se c’è un terreno su cui gli under 40 devono ancora mostrarsi all’altezza delle massime figure della conduzione del secolo scorso, continua Clark, è la capacità di interpretare con freschezza e potenza non soltanto le composizioni più moderne, ma anche il repertorio della tradizione europea del Diciannovesimo secolo. Per i direttori “classici”, il fattore anagrafico giocava a deciso vantaggio: l’età di molti veterani era tale da permettere loro di avere conosciuto di persona, in gioventù, i compositori di cui ora eseguivano le opere.
Se davvero, in tutto questo tempo, “i modi della professione non sono cambiati [ma è] cambiato il contesto sociale di riferimento”, il nuovo stile della conduzione ha fatto male alla musica? Questa la risposta del critico britannico: “Non c’è prova che il declino del vecchio modello autoritario di conduzione abbia condizionato in negativo la vitalità della scena musicale. Tutto il contrario. Gli standard di esecuzione non sono mai stati così alti. E nonostante il clima finanziario, i dati sulle presenze del pubblico rimangono positivi – specialmente in quelle città come Birmingham o Los Angeles, dove il direttore principale è giovane e famoso.”
In ogni caso, il ruolo del conductor rimane imprescindibile: “L’autorità musicale, dopotutto, non è una semplice questione di età e di esperienza. Le orchestre, di solito, sanno rispondere a chiunque sappia fare prove in modo efficace, sappia trasmettere una chiara idea della forma e del tempo della musica e sia in grado, durante la performance, di far salire la temperatura emotiva”.
“E’ una questione di chimica [tra il direttore e i musicisti] – è sempre stato così”, aggiunge Nick Mathias, agente di alcuni tra i maggiori direttori d’orchestra contemporanei, tra cui Vladimir Jurowski della London Philharmonic. “Quando la chimica si innesca, succede qualcosa di straordinario. Qualcosa che nessuno può prevedere o controllare.”