Fabio Luisi e Enrico Girardi agli Amici della Scala. Un incontro.

6 novembre 2013

© Francesco Maria Colombo

Nella nostra sede lo scorso 10 ottobre, alla presenza dei nostri soci e di alcuni invitati, il Maestro Fabio Luisi e Enrico Girardi, musicologo e critico del Corriere della Sera (potete leggere l’intervista di Anna Crespi QUI), hanno parlato dell’opera che il Maestro avrebbe diretto di lì a pochi giorni al Teatro alla Scala: il Don Carlo.

I temi trattati sono stati molti e vari: l’opera, la visione che Luisi ne ha, ma anche più in generale i temi inerenti a Verdi e al patrimonio musicale che ci ha lasciato. In proposito abbiamo potuto prendere atto del punto di vista di uno dei più grandi direttori contemporanei.

Di seguito il testo integrale dell’incontro!

E.G.: La prima domanda che mi sento di rivolgerti è su Giuseppe Verdi. Verdi è un autore la cui evoluzione è talmente ampia, talmente continua tra i primi e gli ultimi lavori, che credo sia oggettivamente impossibile stabilire quale sia il titolo migliore. Esistono “tanti Verdi” diversi, ognuno con le sue caratteristiche e con le sue specificità. Ciascuno di noi in cuor suo sa qual è il Verdi che ama di più, senza pretesa di dire che sia il migliore… Ne sono certo, ognuno di noi ha una propria classifica personale. Io sono curioso di conoscere la tua e di sapere in quale posizione di questa classifica si colloca un’opera così importante e complessa come Don Carlo.
F.L.: È sempre difficile stilare una classifica, soprattutto per noi che ci viviamo dentro nel momento della rappresentazione, dello studio, dell’avvicinamento così intimo a una partitura, sia essa verdiana o di un altro compositore. Il nostro rapporto con queste partiture, e quindi con il compositore che le ha concepite e che le ha messe sulla carta, con la musica che possiamo ascoltare e che vi portiamo ad ascoltare “deve” essere un rapporto d’amore e deve essere un rapporto esclusivo. Nel momento in cui io lavoro sul Don Carlo per me c’è solo Don Carlo, non ci sono altre partiture. Naturalmente c’è un background di conoscenza, di esperienza, di amore anche per altri capolavori, ma in quel momento preciso esiste solo un amore, che oggi è l’amore per il Don Carlo. Mi trovo quindi un po’ in difficoltà a stilare una classifica, ma se vogliamo, è giustissimo quello che hai detto tu. Verdi ha vissuto tanto, siamo testimoni di una sua evoluzione, che va da un uomo giovane, con le sue prime opere, passa per un uomo maturo con le opere di mezzo, sino a arrivare al Verdi di un’età importante, dopo aver vissuto una vita molto ricca, densa di avvenimenti personali, politici, sociali, fortissimi. La sua vita ha attraversato un periodo lungo e di grandi mutamenti. Di conseguenza accumulando un patrimonio di esperienza e di vita molto particolare. E lo si vede riflesso nelle sue opere. Per questo non esiste un Verdi solo, ne esistono tanti, e noi possiamo amare il Verdi del Macbeth, del Trovatore, della Traviata, o il Verdi che noi possiamo definire più maturo, che inizia con Don Carlo. In questo senso dico che Don Carlo è una partitura difficile, controversa, complessa, anche perché ha attraversato diversi stadi di creazione. E forse è la partitura che più avvicina Verdi alla dimensione di musicista internazionale, di grande livello, di musicista europeo. Di compositore di capolavori assoluti. Negli ultimi secoli ne abbiamo avuti solo due o tre di questo livello.

E.G.: Don Carlo è una partitura che viene scritta per l’Opera di Parigi, dove debutta nel 1777. Poi arriva in Italia nel 1882, qui alla Scala, in una versione che non è però soltanto diversa per la traduzione italiana del libretto, ma perché arriva con un atto in meno. Nella versione milanese non ci sono più i cinque atti della versione originaria, bensì quattro. Esiste poi una terza versione, quella modenese del 1886, dove Don Carlo ritorna ad avere cinque atti, ma in italiano. In realtà poi quando vediamo in un cartellone di un teatro d’opera italiano il Don Carlo, dobbiamo sempre chiederci quale edizione andrà in scena. Potrebbe accadere che non sia neppure una di quelle appena citate, ma con inserti della precedente o della successiva. La domanda è: quale Don Carlo ascolteremo noi alla Scala e, poiché non so in quale misura abbia influito il tuo gusto su questa scelta, ti chiedo qual è secondo te la versione ideale di Don Carlo, ammesso che ne esista una versione ideale.
F.L.: Difficile dirlo, anche perché noi come esecutori tendiamo a avvantaggiare l’ultima versione che dovrebbe essere la versione che il compositore ha scelto, considerando che era in vita e ha avuto la possibilità di fare una scelta e di dire “preferisco questa versione piuttosto che quest’altra…”. In questo caso abbiamo la versione milanese, quella in quattro atti, priva di interpolazioni, priva di aggiunte. Quindi la versione tradizionale del Don Carlo. Nel momento in cui mi hanno proposto di occuparmi di questa edizione musicale, mi è stato chiesto cosa ne pensassi. Io ho detto, sinceramente, e non sono musicologo ma un esecutore, “la versione che io amo di più è questa”. È la versione che inizia con i quattro corni, non abbiamo bisogno di sapere la storia precedente, prima di tutto perché la conosciamo, poi perché musicalmente non ci porta una grande ricchezza di materiale. Ho sempre privilegiato questo inizio, di quello che è il secondo atto originario, che noi chiamiamo il primo atto. È un inizio talmente poetico, talmente misterioso, è un inizio che ci apre un mondo in cui sono successe tante cose e noi entriamo in media res, che è sempre bellissimo. Io ho eseguito molte volte anche la versione in cinque atti, e anche la versione più lunga, quella con il coro all’inizio, prima ancora dei cacciatori, e è interessante, ma non sono personalmente mai arrivato a dire più oltre il “è interessante”. Insomma, sono un sostenitore della versione che ascolterete sabato.

E.G.: Forse val la pena di ricordare che l’esistenza di queste diverse versioni è uno dei frutti di uno degli aspetti caratteristici non solo di Don Carlo, ma anche di altre partiture che Verdi aveva scritto per l’Opera di Parigi: la Jerusalem che è la versione parigina dei Lombardi, e i Vespri siciliani, che è stato il primo lavoro scritto appositamente per quel teatro. Un teatro che aveva determinate tradizioni, che voleva i cinque atti, scene spettacolari, grandi cori, grandi scene ballabili… tutto questo nel caso di un compositore nell’evoluzione del cui linguaggio noi assistiamo a un processo di progressiva concentrazione e concisione della scrittura. Verdi diventa sempre più efficace, dice sempre più cose con sempre meno note, sempre meno parole. Sembra una contraddizione in termini. Da una parte lo stile di un compositore che tende alla concentrazione massima, dall’altra l’esigenza di un teatro che vuole spettacolo, fasto, scena, cori balli etc. Una delle tante ragioni della grandezza di Verdi è proprio il modo in cui riusciva a conciliare due esigenze che sembrano nettamente contrapposte. Come secondo te questo avviene nel Don Carlo?
F.L.: Assistiamo all’evoluzione di Verdi: elimina il superfluo ed elimina il non necessario. Né allo sviluppo dell’azione, né alla traduzione in musica di quello che sta avvenendo nella scena o nel cuore dei personaggi. E questo è arrivare all’essenza di ciò che si può dire con la musica. Ed è quello a cui assistiamo nel Don Carlo, ma ci assistiamo anche nel Simon Boccanegra per esempio, opera successiva molto più concisa, molto più drammatica e molto più essenziale. Nel Don Carlo il procedimento è analogo: c’è un’orchestrazione raffinata ma scarna. Non è un’orchestrazione opulenta, si basa sui colori degli strumenti, sui colori del mix up dei diversi strumenti. Perché non è l’opulenza che gli interessa m a il colore in sé, “come metto il clarinetto basso coi corni, in modo da avere un colore particolare, che non me lo possono dare altri cinque strumenti o altre sezioni, ma solamente il corno con il clarinetto basso”. E questo è straordinario perché proprio nel suo vivere, nel suo maturare ha cercato di eliminare tutto quello che non era necessario. Nel Don Carlo ci è riuscito in maniera esemplare. Consideriamo anche l’ultima opera, il Falstaff, in cui non c’è una nota di troppo. Un’opera relativamente breve, ma talmente concisa, talmente forte che ci dà tanta ricchezza. Ed è questo il fil rouge che unisce i grandi artisti, non solo i grandi compositori, ma i grandi poeti, i grandi letterati, i maestri delle arti figurative: in un’opera riescono a darci uno spaccato oppure uno specchio dell’intera esistenza, in cui possiamo riconoscerci, in cui ci riconosciamo. Non ci riconosciamo necessariamente nel re Filippo o nel marito Filippo, ma ci riconosciamo nel padre Filippo; non ci riconosciamo nel nobile Rodrigo, ma ci riconosciamo nell’uomo Rodrigo che aspira alla libertà; non ci riconosciamo nella regina Elisabetta, ma ci riconosciamo nella donna Elisabetta, delusa nell’amore e delusa nella vita. E questa è la prerogativa dei grandissimi e Verdi ne fa parte. Ma questo lo sappiamo.

E.G.: Una delle caratteristiche del teatro Verdiano, è questa “benedetta” tinta che si impara sin dagli esordi dell’apprendistato musicale, a un certo punto ci si imbatte in questo termine che vale solo per Verdi, la “tinta” musicale… Ogni opera ha un qualche cosa, che può essere una figura ritmica, una successione armonica, un certo colore … ad esempio, nel Rigoletto, il titolo in cui la tinta è più evidente, è la figura ritmica, non breve ma lunga, così marcata, che caratterizza tanti passi della partitura e che riflette forse l’andamento zoppicante del protagonista. Ed è così tanto presente che da uniformità a tutto, pur nella varietà delle mille espressioni presenti… Si cerca sempre di individuare gli elementi lessicali, che so i motivi armonici, i motivi ritmici o armonici, e il più frequente è tale da caratterizzare l’atmosfera, il colore di quel lavoro quindi sottolinea la specificità di quel lavoro. Ecco di fronte alla domanda “quali sono gli ingredienti della tinta di Don Carlo”, cosa risponderesti?
F.L.: Direi che ci sono due elementi particolari: non vorrei entrare troppo nel tecnico, ma un elemento importante è il “pedale di tonica”. Il “pedale di tonica” altro non è che la tonica tenuta, il primo grado della scala che viene tenuto. Quindi una nota importante, una nota di base, sulla quale si sviluppano altri movimenti, senza però influenzare né avere la necessità di cambiare di grado – mi spiace sono un po’ tecnico -… Se siamo in do maggiore, teniamo un do lungo, e su questo do lungo facciamo delle variazioni armoniche che però non ci rendono necessario cambiare tonalità. Rimaniamo su questo do che ci da una tensione particolare. Questo è uno dei segreti del Don Carlo. Ci sono tantissimi “pedali di do”. Un’altra caratteristica del Don Carlo è il “legato”. È un’opera quasi sempre in legato, lo scatto verdiano, il nervo verdiano, esiste, esiste eccome, ma non lo abbiamo così continuamente come in altre opere. E così abbiamo un grande legato. Per quello che riguarda i cantanti è difficile anche per questo, ci sono grandi melodie che ricordano quasi Bellini e sappiamo quanto Verdi ammirasse Bellini, grandi melodie, “lunghe, lunghe, lunghe”come diceva di Bellini. Poi avviene lo scatto, che è breve, e in questa brevità dello scatto riconosciamo di nuovo quella “tinta” verdiana, che è il nervo di cui abbiamo bisogno in alcuni momenti, ma la cifra generale è la cifra di legato.

E.G.: Vorrei semplicemente chiederti, chi è il protagonista in Don Carlo?
F.L.: è un dramma familiare, il protagonista è “la famiglia”. Sono i rapporti tra padre e figlio, tra un marito e la moglie, tra quella che da sposa diventa matrigna; c’è una figura di super pater, che è quella di Carlo V. È veramente un dramma familiare, e proprio per questo ci riconosciamo nei personaggi. Non è un dramma politico, la politica secondo me ha un valore non primario per il mondo verdiano, e in questo Don Carlo, lo è molto più forte nella tragedia di Schiller. Io lo vedo veramente come dramma familiare. Persino il Rodrigo, che non appartiene alla famiglia, o Eboli, che non appartiene alla famiglia, che hanno un risalto molto importante dal punto di vista musicale, ma non così importante dal punto di vista drammaturgico. Sono due figure di contrasto, rispetto a questo ambiente cosi teso, cupo, scuro, nebbioso della famiglia di Filippo. Per questo non esiste un personaggio principale, che è sempre molto difficile da stabilire … negli applausi chi è che esce per ultimo? Don Carlo perché ha il ruolo del titolo, ma non è ad esempio più importante di Elisabetta. Ha un’aria sola, straordinaria all’inizio, ma canta tutta l’opera. Tanto più nella versione in 4 atti. Elisabetta canta due arie di grandissima importanza. Filippo ha questa aria incredibile che conosciamo tutti, che è uno dei più grandi colpi di genio di Verdi, anzi, uno dei più grandi colpi di genio di tutto il XIX secolo. Eboli ha un’aria finale di atto che strappa gli applausi. Ecco ancora il genio di Verdi che sa esattamente dove e come mettere i punti in modo che il pubblico sia entusiasta …

E.G.: Stesso discorso anche nella gerarchia dei temi. Abbiamo il tema dell’amicizia e il tema della paternità, tema fondamentale, visto anche in una dimensione non necessariamente diretta, perché da un certo punto di vista anche il rapporto tra Filippo e Posa richiama il tema della paternità … C’è l’amore, per un altro verso, e poi troviamo questo scontro di poteri che schiaccia l’uomo, l’umanità, le aspirazioni dell’essere umano che è lo scontro tra potere politico e potere religioso. Come si fa a mettere insieme il giusto equilibrio nella costruzione di Don Carlo, per uno spettacolo dove più ingredienti vanno combinati insieme?
F.L.: è un motivo di riflessione più che una domanda. Sarebbe sbagliato impostare una regia di Don Carlo esclusivamente sul lato politico, come peraltro è stato fatto spesso. Lo spessore politico del Don Carlo di Verdi non è lo spessore politico del Don Carlo di Schiller. Lo vediamo anche soltanto considerando il minutaggio. Il minutaggio politico di Verdi si riduce a una ventina di minuti, il resto è dramma familiare che sappiamo essere per il compositore molto più importante. In Verdi la persona è molto più importante del contesto. Quindi quello che avviene politicamente, persino il dialogo tra Filippo e il Grande Inquisitore, che dovrebbe essere un dialogo politico, si svolge sul tema “cosa posso fare con questo mio figlio ribelle”. Ma non perché sia ribelle, ma soprattutto perché “è mio figlio”. Da questa domanda importante scaturisce un richiamo dei doveri del sovrano, rispetto alla concezione del tempo, del potere … Il secondo momento veramente politico è la sommossa. Dopo l’omicidio di Rodrigo, la sommossa viene subito messa a tacere da un gesto di potere da parte della chiesa, Possiamo ridurlo quindi a una ventina di minuti rispetto alle 4 ore dell’opera, accorgendoci di dove Verdi ha messo il suo cuore, dove secondo lui sono le cose più importanti: la musica. E qual è la musica più bella? L’aria di Filippo. L’aria di Filippo non è un’aria politica. È soltanto un’aria di autocommiserazione nei confronti di questa donna che non può dargli amore. E Filippo questo lo sa. La musica più bella è il duetto tra Don Carlo e Elisabetta, dove non parlano di politica ma parlano del proprio passato, e di quello che il passato non è riuscito a sviluppare sul presente. Possiamo benissimo vedere dove Verdi mette gli accenti. E abbiamo bisogno di registi che abbiano molta più fiducia.

E.G.: Doppia domanda. La prima è una curiosità. Sei arrivato e hai iniziato le prove con l’orchestra della Scala. Quali sono i punti da cui partire, quale era la preoccupazione che avevi, “bisogna che dica e spieghi questo, quello …”, e quali sono i più importanti aspetti che secondo te bisogna mettere a punto in una rappresentazione di Don Carlo?
In secondo luogo, cosa significa suonare Verdi con un’orchestra che dovrebbe avere Verdi nel suo dna storico, l’orchestra della Scala?
F.L.: generalmente, quando inizio a lavorare, non ho la mia visione dell’opera rigida da cui partire. Con un’orchestra come quella della Scala non parto dal presupposto di dover insegnare come si fa Verdi, presumo che lo sappiano bene, E, in effetti, lo sanno molto bene. Durante il lavoro è emerso quello che cui parlavo prima, il contrasto tra le grandi linee legate e lo scatto verdiano che è idiomatico in Verdi, e su questo abbiamo dovuto lavorare particolarmente, in modo da non dimenticare questo nervo, questo scatto, questa dinamica particolare, che porta a insistere in particolare sull’articolazione dell’orchestra. Su questo è stato necessario lavorare particolarmente, ma è un’orchestra che nel suo sangue, nel suo DNA, parte da Verdi, per cui è facile. E lo sanno esattamente, non è stato un lavoro faticoso.

E.G.: Cosa vuol dire che un’orchestra ha Verdi ha nel proprio dna, che cosa viene da sé, che cosa non è necessario spiegare, che cosa non è necessario rivedere? Parliamo dei fraseggi, delle dinamiche, delle articolazioni? Tu sei un direttore che ha avuto a che fare con molte e diverse orchestre negli Stati Uniti, con orchestre tedesche, orchestre austriache, con molti dna diversi … Vorrei capire in cosa consiste avere questa specificità nel proprio dna d’orchestra.
F.L.: Probabilmente nel colore. L’orchestra della Scala è un’orchestra che capisce quale colore dare alla situazione in cui ci troviamo. Infatti non ci ho particolarmente lavorato. Certo ci ho lavorato, ma non è stato difficile illustrare il tipo di colore necessario per una particolare scena, per una particolare situazione … intanto perché conoscono l’opera, conoscono la situazione, sanno di cosa si tratta oltre a conoscere bene il testo. E poi perché è una musica che parla, e lo fa in maniera molto chiara; e alla quale loro rispondono istintivamente e che è facile mettere in rilievo. E quindi il colore verdiano, la tinta verdiana è una cosa che mi hanno regalato fin da subito, sulla quale non abbiamo dovuto lavorare molto.

E.G.: C’è qualche cosa fuori dal Don Carlo che tu più di tutto senti vicino al questa opera come tipo di scrittura musicale? C’è qualche altro luogo verdiano dove si sente qualcosa del Don Carlo, sia come proiezione futura che come reminiscenza del passato.
F.L.: Io sinceramente ho sempre trovato molto Don Carlo nei Vespri siciliani: una tinta scura. Sono più opulenti i Vespri Siciliani, c’è più ricerca di sperimentazione da parte di Verdi, c’è un orchestra enorme, ed è usata spesso in maniera massiccia mentre invece in Don Carlo vengono usati i diversi reparti anche da soli, cosa che nei Vespri siciliani Verdi non ha ancora il coraggio di fare. Ma la tinta generale, questa ricerca di tinte scure, di clarinetti, di corni, di fagotti, di particolari colori lo vedo anche nei Vespri siciliani. Opera che io ho diretto prima di dirigere il Don Carlo. Opera che io adoro tra l’altro. E il passo successivo è Don Carlo.Questa idea di colore …

E.G.: Qualcosa della Messa da Requiem? La cui composizione comincia in quel periodo …
F.L.: In genere sono molto reticente a mettere la Messa da Requiem accanto alle opere. Il primo passo che in molti spesso muovono è definirla “la miglior opera di Verdi”. Non è un’opera. È un’altra cosa. Ed è una cosa molto diversa. Qualcosa in cui Verdi ha usato l’orchestra come non ha mai usato in un’opera. Certo è lo stesso compositore, lo sentiamo, ne sentiamo il profumo, ne sentiamo la sensibilità, ne sentiamo la sensibilità per il momento drammatico nel Requiem, che è un’opera sinfonica, ma drammatica. Ma non mi sento di dire che il Requiem sia vicino a un’opera perché è un altro mondo. Lui stesso non ha pensato a mettere vicino dal punto di vista strumentale o drammaturgico a una delle sue opere. Sono sempre quindi molto restio a fare dei confronti tra il Requiem e le “opere” di Verdi.

E.G.: Uno dei tanti aspetti in cui si manifesta l’evoluzione del pensiero verdiano lo si ravvede proprio nella quantità di indicazioni che lui scrive sulle partiture. Man mano che prosegue la sua parabola artistica troviamo indicazioni sempre più dettagliate. Sappiamo che nel mondo del teatro, in particolar modo nel caso del melodramma verdiano, e nella stessa tradizione esecutiva, queste indicazioni non vanno prese alla lettera. Molto spesso vanno interpretate, vanno capite e comprese in un contesto più ampio che tiene conto di tanti fattori, non ultimo quello storico, la natura delle orchestre, etc. Quanto contano per un direttore di oggi queste indicazioni, quanto sono vincolanti? Vanno prese alla lettera? Vanno interpretate? E, nel caso vadano interpretate, in che senso? Secondo quali criteri e quali parametri?
F.L.: Per noi la cosa più importante è non fermarsi alle note, quindi non fermarsi neppure alle indicazioni scritte, ma cercare di capire cosa c’è dietro. Il “perché” e cosa quello che si sta leggendo significhi. In Verdi tutto ha un significato drammatico. Non c’è niente di casuale: se c’è una nota corta, se c’è un accento particolare … e questo non è altro che una traduzione di quello che sta avvenendo sulla scena, di quello che noi non vediamo, di quello che i cantanti non stanno cantando ma stanno sentendo. Questa è la cifra del grande compositore. Le indicazioni come le note vanno rispettate, questo è chiaro, ma ancora più importante è comprendere lo spartito laddove non ci sono indicazioni, o quando le note non ci dicono chiaramente come devono essere eseguite. È facile seguire le indicazioni: ci sono, si seguono … Ma molto più importante è capire. C’è una storia divertente, con protagonisti Puccini e Lehár a Vienna. Lehár presenta un’opera di Puccini, che è presente in sala, e su richiesta dello stesso Lehár fa una prova al pianoforte. Lehár dice “Maestro, qui lei non segna ritenuto, perché suona ritenuto?” e Puccini: “non c’è bisogno di segnarlo, è chiaro che bisogna farlo”. Questo può valere per ogni compositore.

E.G.: E quante volte accade una cosa analoga sulle partiture di Verdi?
F.L.: Succede abbastanza spesso, perché è talmente chiaro, fa parte del suo idioma. Soprattutto per quanto riguarda l’articolazione: se abbiamo una nota, un ottavo, un quarto, sappiamo che l’ottavo è il levare del quarto, quindi va articolato chiaramente. Non possiamo metterlo allo stesso livello dal punto di vista dell’articolazione. A volte Verdi mette il punto, ma spesso non lo mette, quando non avrebbe senso farlo senza punto. È chiaro. Lo capisce anche un bambino!

E.G.: Nel Don Carlo ci sono sei personaggi importanti. Il che vuol dire sei vocalità. Il problema della vocalità in una partitura come Don Carlo come lo si affronta? E, domanda nella domanda, quale margine di libertà è bene dare al cantante, all’interprete, cercando di assecondarlo, e quanto invece è necessario condurlo dentro i confini di un impianto esecutivo che ha i suoi tempi e le sue regole? È un problema annoso questo? Cosa ne pensa di questo aspetto che nel melodramma italiano è sempre molto importante?
F.L.: è un aspetto fondamentale, ma è un discorso molto lungo e molto complesso, che ci porterebbe lontanissimo. Io parto dal presupposto che il direttore d’orchestra, il maestro concertatore, è quello che stabilisce la direzione. Ho una mia visione che desidero realizzare. Ho a disposizione un’orchestra che ha molto di suo e che merita di essere rispettata. Come dicevo prima, l’orchestra della Scala ha un’impronta molto verdiana. Analogo è il discorso per quanto riguarda i cantanti. Ho cantanti diversi. Ho diretto produzioni con cantanti molto diversi tra loro. Ognuno ha la sua propria personalità e anche il diritto di esprimerla. Il problema è quello della misura: quanto rientra l’espressione della sua personalità nella mia visione dell’insieme. Generalmente il cantante non vede l’insieme. È chiaro. Lui non è li per vedere l’insieme ma per cantare il suo ruolo. Quindi è mio compito, da un lato, di aiutarlo, ma anche di prendere quello che lui mi può dare, che per me è molto importante. Ho bisogno di cantanti con una personalità. Non sono un direttore di quelli che impongono duramente la propria visione “devi fare così, devi fare quello, e guai se fai una nota più lunga, guai se…”. No, perché è giusto anche adeguare un poco il mio passo di marcia al cantante, senza però incidere sulla mia visione d’insieme. Il mio compito (come si dice, il lavoro di un direttore d’orchestra al 75% è psicologia, il resto è musica …) è di motivare il cantante, farlo sentire a suo agio, ma allo stesso tempo di dargli una guida ben chiara.

© Francesco Maria Colombo
© Francesco Maria Colombo

E.G.: Non è una conferenza stampa, ma un incontro tra appassionati con gli Amici della Scala, posso quindi chiederti come ti trovi con il cast in questi giorni (quando erano in corso le prove n.d.r.).
F.L.: è un cast molto particolare, abbiamo Rene Pape nel ruolo Filippo, che non è una voce italiana, idiomatica, ma è un interprete di grandissimo livello di grande profondità, con una sensibilità particolare, e ci regala un ritratto molto forte di Filippo. Abbiamo una debuttante che è Martina Serafi, che ha già fatto Tosca con un certo successo, e è una voce piuttosto drammatica, che secondo me è anche la voce giusta per Elisabetta: perché Elisabetta non è un ruolo esclusivamente lirico. I momenti più forti di questo personaggio sono i momenti drammatici. Verdi non ha mai reso la vita facile ai suoi cantanti, e non rende la vita facile neppure a Elisabetta. Come sappiamo già per  La traviata, Traviata ha bisogno di una voce per atto. Per Elisabetta si ha un discorso analogo, serve una voce che si sviluppa e che abbia anche una certa leggerezza negli acuti; ma per le scene drammatiche si ha bisogno di una voce importante, che non reggerebbe altrimenti il peso drammatico di certe situazioni, e Martina Serafe ha questo tipo di voce. Elisabetta secondo me è una donna con una grande vita interiore, con una certa maturità. Non è una ragazza, non è una ragazzina ingenua e debole. È una donna con una certa tenacia, e questo deve rispecchiarsi anche nel peso vocale. Abbiamo poi il tenore, Fabio Sartori che secondo me è uno dei più bravi tenori oggi in circolazione, con una vocalità splendida, senza nessun problema vocale, con un grande istinto drammaturgico. Una scoperta sarà il baritono, che vi prego di ascoltare con orecchie aperte, che può diventare un grande cantante. È molto giovane, giovanissimo, Massimo Cavaletti, e sta facendo benissimo. Sono estremamente soddisfatto. Abbiamo Caterina Egubanova nel ruolo di Eboli. Io ho già diretto il Don Carlo con lei in Giappone, durante una tournée del Metropolitan, ma è cresciuta molto. È cresciuta nel peso vocale, qualitativamente, e sta facendo uno splendido lavoro. Per il grande inquisitore, che ha una sola scena ma importantissima abbiamo una grande voce, un basso slavo. Non è una voce idiomatica neppure lui, ma dovreste rimanere contenti!

E.G.: Oggi viviamo in un’epoca in cui è molto semplice, con i mezzi che abbiamo a disposizione, trovare e ascoltare innumerevoli registrazioni di Don Carlo, come di qualunque altra opera. Quello che voglio chiederti è se per te c’è un Don Carlo di riferimento, una versione in particolare che ha influenzato o segnato maggiormente la tua crescita come musicista, la tua “figura” di musicista.
F.L.: Ti rispondo in grande sincerità. Don Carlo è una delle opere che io ho meno ascoltato durante la mia crescita come musicista. Ricordo che da ragazzo, ma anche dopo, ho ascoltato moltissimo il Simon Boccanegra, che adoravo…

E.G.: Perché sei genovese!
F.L.: Forse per questo…(risate)… Ricordo un’edizione del Simon Boccanegra proprio qui alla Scala, un’edizione leggendaria, per me indimenticabile: l’edizione a cui aspiro. Ecco, vorrei fare un decimo di quello che è successo in quell’edizione del Simon Boccanegra. Ancora oggi ho la pelle d’oca. Io ero in loggione, avevo 18 o 19 anni, e morivo di ammirazione; per il direttore, per l’orchestra, per la scena, per i cantanti. Era per me la condizione perfetta. Cosa che non mi è capitata spesso di vedere nel Don Carlo. Essendo anche un’opera con la quale ho combattuto molto, per me molto difficile, alla quale mi sono avvicinato con grande difficoltà e con grande umiltà e con la quale ho dovuto combattere per poterla penetrare, proprio per la sua complessità. Per me è stata sempre un’opera ostica, difficile e sono riuscito relativamente tardi a entrarci. Adesso naturalmente la adoro. Ma ne ricordo poche edizioni. Ce n’è una che mi impressionò in parte, quella di Karajan a Salisburgo, e sinceramente … solo quella.


© Francesco Maria Colombo

E.G.: Proseguendo la nostra conversazione vengono fuori anche altre risposte. Ed ecco quella che non hai dato alla prima domanda, sul Verdi che ami di più. Mi sembra che Simon Boccanegra e i Vespri Siciliani
F.L.: Beh, sì, adoro il Simon Boccanegra, adoro i Vespri, adoro Traviata, adoro Rigoletto… (risate) Ma io adoro per esempio Aida, che è un’opera che molti direttori aborriscono. Io invece la trovo un’opera straordinaria.

E.G.: C’è qualcosa che non ti ho chiesto ma che merita di essere aggiunto?
F.L.: Abbiamo detto molto … diciamo questo: che è difficile per il Don Carlo trovare i cantanti giusti, più difficile che in altre opere. Soprattutto perché, essendo tutti così importanti, l’opera non reggerebbe se ne avessimo soltanto uno o due bravi, e gli altri no. E questo è difficile. È molto difficile trovane 5 o 6 di altissimo livello. Ma penso che ci siamo riusciti per questa edizione. Ecco, la sfida del Don Carlo è veramente questa.

Grazie a Francesco Maria Colombo per il dono delle fotografie scattate durante la serata.

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