Prima delle prime: Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi
20 October 2014
Lunedì 27 ottobre 2014 alle ore 18 nel Ridotto dei palchi “A. Toscanini” avrà luogo l’incontro con Fabrizio Della Seta, musicologo e docente dell’Università degli Studi di Pavia, sede di Cremona. Gli Amici della Scala gli hanno chiesto di fornire qualche anticipazione rispondendo ad un paio di domande che vi riproponiamo integralmente.
[Q] Si può dire che con Simon Boccanegra inizi per Verdi un nuovo corso dopo il trionfo di Rigoletto, Trovatore, Traviata? Se sì, quali i motivi del rinnovamento?
[A] In realtà il Simon Boccanegra non viene immediatamente dopo Il trovatore e La traviata, precedenti di quattro anni (1853-1857) che per Verdi non sono pochi. In mezzo si colloca l’esperienza fondamentale dei Vespri siciliani, la prima opera scritta espressamente per Parigi, un’occasione fondamentale per un ripensamento della drammaturgia verdiana, ma anche del suo linguaggio musicale (in particolare la scrittura orchestrale e il modo il nuovo rapporto parola-musica imposto dal fatto di “pensare musicalmente” in francese). Ma, in generale, non sono d’accordo sul concepire il percorso di Verdi come una serie di tentativi, traguardi raggiunti, ripartenze e nuovi traguardi. E’ un modo di pensare evoluzionistico che oggi non è più accettato dalla musicologia verdiana. È molto più corretto pensare il percorso di Verdi come una serie di continue sperimentazioni (alcune pienamente riuscite altre meno, ma non seguendo un progresso lineare), sostenute da una concezione drammaturgica di fondo molto coerente – dalle prime alle ultime opere – e al tempo stesso da un continuo aggiornamento dei mezzi linguistici, consapevole dei risultati ottenuti da altri compositori contemporanei (non solo Wagner, come spesso si pensa, ma via via anche Meyerbeer, Gounod, Bizet, Massenet). Nel caso del Simone, poi, occorre tener sempre presente che quella che ascoltiamo è la versione prodotta nel 1881, dopo il Don Carlos, Aida e il Requiem: si tratta della più estesa revisione mai compiuta da Verdi, Conservando ampie parti della prima versione, modificandone profondamente altre, inventando alcune parti ex novo. Simon Boccanegra rappresenta perciò non uno, ma due momenti stilistici ben diversi, e non toglie nulla alla grandezza dell’opera dire che in alcuni punti la discrepanza si sente.
[Q] Perché, nonostante “fossero bene aggiustate le gambe rotte di questo vecchio Boccanegra” (così scriveva Verdi all’amico Arrivabene) e nonostante l’intervento di Arrigo Boito, il Simone per molto tempo non è riuscito a incontrare il favore del pubblico? Forse perché, come diceva Verdi, è una storia “troppo triste, troppo dolente” o perché priva, in primo piano, di sofferenze, contrasti, gioie d’amore?
[A] Questo giudizio si riferisce alla seconda versione, ma in realtà l’opera non era divenuta popolare prima e non lo diverrà mai dopo. I motivi sono facili da capire: la tinta dominante dell’opera costantemente cupa e uniforme; la parte amorosa della vicenda è tutto meno che appassionante; non vi si trova neppure una melodia realmente memorabile, orecchiabile, popolare (è curioso sapere che Abramo Basevi, l’autore del primo libro di critica su Verdi, scrivendo nel 1859 sulla prima versione ne criticò la mancanza di melodia e affermò che, nel duetto Simone-Fiesco del primo atto, Verdi si era spinto tanto in là come neppure Wagner avrebbe osato; giudizio davvero curioso, visto che a quell’epoca Verdi di Wagner non aveva ascoltato neppure una nota). Si aggiunga che, mentre il soprano e il tenore hanno parti ampie ma drammaticamente marginali, a reggere il dramma sono piuttosto il basso e il baritono; dei quali, a Fiesco è concessa solo una breve, benché memorabile, romanza (Il lacerato spirito), a Simone, che dà il titolo all’opera, neppure un pezzo tutto per sé ma solo brevi frasi, pur esse memorabili, che si stagliano nella cornice di pezzi d’assieme (l’assolo più ampio, “Plebe, patrizi, popolo […] e vo gridando pace, e vo gridando amor”, che non è un’aria, compare solo nella versione del 1881). Ciononostante, è opera molto ammirata da grandi interpreti, da critici e studiosi, da appassionati intenditori; sembra pensata per piacere più a queste categorie che al grande pubblico, che però sa apprezzarla in occasione di esecuzioni veramente di primo livello. Potremmo definirla un’opera “d’élite”, come Macbeth (“un’opera più difficile delle altre” la definì Verdi), come Don Carlos, come Falstaff. Anche quello di un Verdi sempre e comunque “popolare” è un mito da ridimensionare, o meglio da comprendere storicamente.