Intervista a Jhumpa Lahiri

1 ottobre 2013

Lo scorso 18 ottobre la casa editrice Guanda ha organizzato un festeggiamento, una serata in cui celebrare l’uscita di quello che è già stato definito come uno dei romanzi più interessanti della narrativa americana degli ultimi anni: La moglie di Jhumpa Lahiri.

Già vincitrice di un Premio Pulitzer, oltre che di numerosi altri riconoscimenti, la scrittrice di origini indiane ha pubblicato in anteprima mondiale in Italia il suo ultimo romanzo.

Gli Amici della Scala hanno ospitato la serata, complice l’amicizia che ci lega al patron della Guanda Luighi Brioschi; una serata di festa con numerose e importanti personalità del mondo della cultura e dell’editoria milanese e italiana. Oltre all’editore Luigi Brioschi e al suo staff, erano presenti tra gli altri gli editori Stefano Mauri del gruppo Mauri-Spagnol, Rosellina Archinto, oltre a Alberto Ottieri, Sandro Gerbi, Christopher Broadbent, Chiara Boroli, Alberico Belgioioso.

Anche giovani e brillanti scrittori hanno partecipato a questa serata, tra questi Marco Belpoliti, 32 anni e già due Campiello in tasca, e Gianni Biondillo, architetto e giallista.

Ovviamente ospite d’onore era la scrittrice di origine indiana Jhumpa Lahiri, che con cordialità e in un perfetto italiano (lingua che sta studiando a Roma dove da un anno si è trasferita con la famiglia) ha intrattenuto gli ospiti e ha parlato brevemente del suo romanzo, La moglie.

La nostra presidente Anna Crespi per l’occasione l’ha intervistata, e quello che ne esce è un dialogo intimo e sincero, il racconto di una persona affascinante.

Lei nasce in Inghilterra, e poi all’età di due anni si trasferisce in America. Suo padre era un bibliotecario. Sua madre di cosa si occupava?
Mio padre è ancora bibliotecario. Mia madre ha studiato letteratura in India, ma ha cominciato a insegnare in America solo quando mia sorella ha compiuto 16 anni.

Il suo ambiente familiare ha contribuito alla sua formazione?
Io sono stata educata in lingua inglese, ma a casa parlavo sempre in bengalese. Ho avuto una vita “divisa”. In famiglia parlavo in bengalese; poi a scuola trovavo u’altra realtà. Questi due mondi mi sembravano completamente separati. Io ero in mezzo e in qualche modo li univo, ma mi sentivo comunque divisa.

Il suo libro mi ha molto colpito. Ho notato un dualismo; è come se ci fossero due “lei”.
Io esisto fra due mondi, ancora adesso. Questo spazio – tra due luoghi, due culture, due lingue – è uno spazio in cui mi sento a mio agio.

Come si sente ora?
Mi sento come in un’anticamera. Non mi sento mai al centro di un luogo o di una cultura. Non riesco ad appartenere completamente a uno o all’altro mondo.

Lei ha bambini?
Due: uno di undici e l’altra di nove anni.

Si assomigliano?
Sì, in diverso modo. Entrambi amano leggere; il maschio è più tranquillo, la bambina è più socievole.

Sono importanti per lei?
Loro costituiscono il mio centro. Grazie a loro mi sento ancorata; grazie a loro sento che la mia presenza in questo mondo è essenziale.

Perché i suoi genitori sono emigrati in Inghilterra e poi in America?
Non c’è una spiegazione chiara: mio padre voleva altro. Quando gli chiedo perché ha deciso di lasciare l’India, ancora adesso che ha 83 anni, il motivo non risulta chiarissimo, resta inspiegabile.

Lei ha fratelli o sorelle?
Ho una sorella minore.

Vi somigliate?
Caratterialmente lei è diversa da me.

Chi di voi è più legata all’India?
È difficile dirlo. Siamo entrambe legate all’India, ma con modalità diverse. Lei è professoressa di Scienze Politiche e il suo mondo intellettuale è l’India. Io sono la maggiore, sono cresciuta con tante pressioni indiane dal punto di vista esistenziale.

Tra i protagonisti del suo romanzo, La moglie, si identifica in un personaggio?
No, perché in qualche modo tutti sono aspetti di me. I personaggi sono come miei figli.

Lei va spesso in India?
Quando ero piccola, fino all’età di 20-25 anni, andavo in India ogni due anni. Ora non riesco a viaggiare molto perché ho una mia famiglia.

Com’è diventata scrittrice? Ha sempre scritto?
Ho sempre scritto. Ho cominciato a leggere quando avevo 6-7 anni, in inglese. Quasi subito dopo ho iniziato a scrivere versioni strane delle storie che leggevo. Era come un dialogo con il libro: Leggevo un’avventura e provavo a scrivere una versione diversa. Ero una ragazzina molto isolata, timida; era molto difficile per me avere un legame con gli altri, creare connessioni.

Anche a scuola?
Sì. Non so perché, forse mi sentivo troppo sensibile.

Lei inizia a scrivere le bozze delle sue storie. Come inizia il momento dell’intuizione?
Pian piano proseguo la storia, arricchendola fino a quando l’ho terminata.

Lei spera che i suoi romanzi restino? Sono come un dono che fa al mondo?
Non penso tanto al futuro dei miei libri. Per me è più importante il processo creativo. Io voglio rimanere ancorata nel presente. Probabilmente perché i miei genitori, mia madre soprattutto, voleva sempre qualcosa di nuovo. Quando eravamo in America, mia madre voleva essere in India.

Anche suo padre?
Anche per mio padre era molto importante tornare in India.

Cosa succede in lei quando torna in India?
Una reazione interessante: l’India per me non ha lo stesso significato che ha per i miei genitori. Io non ho lasciato il mio paese. I miei genitori sentono più forte di me la nostalgia dell’India.

Lei a quale terra appartiene?
Io sto in mezzo. Io appartengo alla mia scrivania, ai miei figli e a me stessa.

Generalmente quando si termina un romanzo, non è più dell’autore; è come un figlio adulto che percorre la sua strada… È così anche per lei?
Deve essere per forza così. È un po’ come un parto. Non è possibile portare questo peso dentro di sé per sempre, bisogna lasciarlo andare.

Le piace la natura?
In questo periodo della mia vita per me è importante. In questi giorni più che mai la natura mi sembra l’unica cosa permanente che abbiamo.

Cosa intende?
Noi possiamo avere una connessione con la natura. Tutto cambia, ma la natura non cambia mai.

Anche suo marito ama la natura.
Sì, a suo modo. Lui ama di più le città: è un cittadino.

Anche lei si sente cittadina.
Sì e no. Per esempio amo molto Roma; ma è molto importante per me il mare, l’oceano.

Perché?
L’oceano è l’unico posto dove provo felicità sconfinata, libertà.

Lei ora vive in Italia, come si trova?
Riesco a capire cosa significa essere una straniera. Io continuo a scrivere libri che parlano di stranieri, ma non ho mai vissuto questa esperienza. Adesso, in Italia, sì. Sono qui, vivo qui, parlo un’altra lingua. È come vivere la stessa esperienza che hanno fatto i miei genitori.

Roma è una città bella, la malinconia passa; Milano è più nascosta, più chiusa. Lei è intimista?
In un certo senso sì, ho un’intensa vita interiore. Quello che mi attira dell’Italia è la passione della lingua. La lingua mi attira molto e ho il desiderio e il bisogno di impararla e parlarla. È come una vocazione.

Com’è la donna per lei? Chi è – nel romanzo – la moglie che a un certo punto arriva tra i due protagonisti?
È una donna complessa e tormentata; indipendente ma anche sperduta.

Si identifica un po’ nella moglie?
Capisco cosa vuol dire essere una donna divisa. Faccio la mamma, ma ho una vita creativa in cui passare tanto tempo da sola per lavorare.

Lei è mentalmente indipendente.
Sì è così.

È molto elegante. Si sente a suo agio quando è vestita bene?
Non sono sempre così. Mi piace però sentirmi elegante anche a casa; ma quando sono da sola ho un altro aspetto. Voglio essere invisibile. Sono una scrittrice e secondo me la scrittrice deve rimanere in disparte a osservare il mondo.

Lei ha scritto il suo primo romanzo; l’ha mandato all’editore che l’ha accettato.
Solo alla fine. È stato un processo lungo.

La divertiva rivedere e lavorare ancora al libro?
Sì. È la fase del processo che mi piace di più. All’inizio c’è una visione molto vaga e poi pian piano raggiunge completezza.

L’editore le dava indicazioni?
All’inizio lavoro da sola, in seguito nasce il dialogo con l’editore.

Il suo modo di osservare, di essere, è cambiato dopo aver pubblicato il primo libro?
È stato molto strano, l’attenzione mi fa male. Mi sento un po’ spaesata perché la vita privata è per me la cosa più preziosa.

Questa sera lei è festeggiata. Le piace o la imbarazza?
Io apprezzo così tanto questo festeggiamento per me. Scrivere un libro è difficile e sono grata. È una fortuna essere una scrittrice e avere questa libertà. Tanti scrittori non riescono mai a raggiungere la libertà che io ho. Ma il festeggiamento per me è un’eccezione.

Per lei, cos’è oggi la letteratura contemporanea?
Non leggo molto la letteratura contemporanea. Da più di un anno sto leggendo solo autori italiani, soprattutto gli scrittori del Novecento, come Moravia, Pavese…

Come trova la letteratura italiana?
È bellissima, un mondo a me nascosto finora.

Da quanto tempo è in Italia?
Da un anno.

E sa già parlare così bene l’italiano?
Avevo iniziato a studiare l’Italiano già in America, e da due anni sto leggendo gl iscrittori italiani per entrare in questo spazio linguistico.

È importante lo spazio linguistico?
Sì, molto.

Forse a lei dell’Italia piacciono le storie, lo spazio linguistico che la staccano dall’India e dall’America.
In Italia vivo senza alcun tipo di pressioni. In America devo viver da americana; in India i miei parenti mi dicevano sempre come vivere, come vestirmi.

Suo marito di che nazionalità è?
Lui ha il passaporto americano, ma è cresciuto in Guatemala.

C’è una letteratura straordinaria in Sud America, molto sentita.
Anche emozionante.

È difficile orientarsi nel mondo editoriale attuale?
Provo a mantenere sempre un distacco. Il mio impegno creativo non viene dal desiderio di essere famosa e riconosciuta; è una passione.

Il suo libro – soprattutto nella prima parte – sembra un romanzo storico.
C’è uno sfondo storico, dopo l’indipendenza dell’India.

Secondo lei l’editore come sceglie il libro da pubblicare?
Non lo so. Per me è meglio essere un po’ ignorante su queste cose.

La sua femminilità viene rappresentata nei suoi romanzi?
Sì. Mi piace una frase di Natalia Ginzburg: “È necessario scrivere senza nessuno scopo”.

Nel suo libro la natura cambia: nel mondo indiano è più pesante, aggressiva; in America è più morbida e leggera…
Rappresenta il passato contrapposto al presente del personaggio: la natura indiana, la pioggia, il fango, tutto rappresenta il peso del passato. Invece in America tutto ha un nuovo orizzonte. A me piace l’oceano e anche nuotare. Mi sento senza peso.

Nell’ambientare la storia in India, cercava di capire il paese?
Conosco il luogo dove ho deciso di ambientare la prima parte del libro: corrisponde alla terra in cui è cresciuto mio padre. Andavo ogni due anni con lui a visitare i miei nonni paterni. Riesco a visualizzare questo luogo, è molto presente nella mia mente, è qualcosa di personale. Ad esempio, in un passaggio del libro c’è il simbolo del muro del club segreto che rappresenta lo straniamento, la sensazione di un mondo impenetrabile, ma attraente. L’America era tutta un muro per me.

Nel suo libro ci sono sempre grandi masse in movimento, sia in India sia in America.
Le masse ci sono ovunque.

E il villaggio invece?
È un posto più piccolo, limitato.

Le piace?
Ogni tanto mi piace andare in un posto più piccolo e intimo per capire uno stile di vita diverso dal mio. A volte però può essere una realtà provinciale. In inverno amo andare in un posto piccolo, isolato, vicino a Boston che si chiama Capo Cod. Amo questi luoghi un po’ abbandonati d’inverno. Ma dopo un po’ ho bisogno di un’altra vita. A me serve il contrasto, sia il luogo piccolo e isolato, sia la massa, sia le mura.

Nel suo libro tutto si amalgama, anche i contrasti.
Sì, i personaggi si uniscono e poi si separano.

È per questo che lei scrive: “… foci di fiumi in cui si mescolano acque dolci e salate…”?
Questa mescolanza è importante. La vita è così. Ci si amalgama: madre e figlio, padre e figlio, il matrimonio.

Non la spaventa questo amalgamarsi?
No, io riesco sempre a mantenere un distacco. Si nuota e poi si torna sulla sabbia.

Nella sua natura non c’è solo dramma, c’è anche primavera?
C’è sempre la primavera, il cambiamento della natura.

Lei crede in Dio?
No, non sono religiosa. Però credo in una forza, che ci sia qualcosa di più grande: credo nel miracolo.

Cos’è il miracolo?
Qualcosa di incomprensibile, indecifrabile. Qualcosa di positivo.

Ha mai sofferto un dolore forte, così terribile che l’ha cambiata?
Tutto è relativo, nella mia vita ho sofferto. Ho dovuto lavorare molto per accettare me stessa.

Lei è così bella…
Però non mi sento così.

Prima non si accettava, adesso sì?
Adesso sì, è più facile. Soprattutto dopo aver avuto i miei figli. La maternità è la mia ancora, mi sento essenziale.

Adesso sono piccoli, poi cresceranno..
Ogni giorno è un dono. Accetterò i cambiamenti giorno per giorno.

Lei scrive: “In America la sabbia è grigia, più sottile dello zucchero, uccelli bianchi e grigi avanzavano rigidi lungo la spiaggia”. C’è pace, ma anche nella pace c’è inquietudine…
È vero, è proprio così.

Vorrebbe aggiungere qualche cosa d’altro?
È stata una bella conversazione.

(Intervista di Anna Crespi)

Riproducibile solo citando la fonte: Associazione Amici della Scala di Milano

Lascia una risposta